domenica 2 ottobre 2011

Franco Cambi per "Riforma della scuola"

“L'arsenale delle bozze”
Quaderni della rivista “Riforma della Scuola”


Numero uno.
Emergenze educative
e pedagogia critica.
Tra scuola, saperi e societa’ civile.


Sette interventi, ed una introduzione,
di Franco Cambi




Piano del volume

I pilastri della scuola che vogliamo.
Presentazione di Davide Ferrari e Franco Frabboni


Introduzione.

I. La pedagogia della Resistenza: ieri e oggi.
II. Strategie formative per la democrazia.
III. Verso una scuola di massa e di qualità.
IV. Differenza, incontro, dialogo.
V. Insegnare filosofia a scuola, oggi. Note minime.
VI. La cultura dell’infanzia: un problema planetario.
VII. Tre riflessioni sulla pedagogia clinica.











































Presentazione




I pilastri della scuola che vogliamo
Davide Ferrari, Franco Frabboni


Con la presente raccolta di Saggi di Franco Cambi (*) - autorevole filosofo e storico dell’educazione, nonché figura pedagogica di primo piano in campo europeo - “Riforma della Scuola” (che da un anno ha ripreso le pubblicazioni in on line) - inaugura una collana di Quaderni allo scopo di fornire ai propri lettori sia approfonditi strumenti di analisi sull’attuale deriva del nostro sistema pubblico di istruzione (smantellato da una Destra al governo illiberale, populista e padronale), sia un repertorio prospettico di idee - sociali e culturali - in grado di edificare una Scuola di base e del postobbligo retta da una duplice architrave: democratica e interculturale.
A tal fine, risoluta é la difesa dell’Autore nei confronti della Pedagogia: Scienza dell’educazione che in questo primo decennio di Secolo é stata in Italia costretta al/lutto: colpita da una vera e propria tragedia epistemica. Un Governo aziendalista e incolto ha brutalmente profanato l’altare del soggetto/Persona: preferendo celebrare il totem del soggetto/Massa, simbolo di una società inginocchiata al Mercato e al Mediatico.
Rinforziamo il concetto. Il Governo padronale e illiberale dei primi due lustri del Duemila (con la fugace eccezione del Governo Prodi: 2006-2007) non può essere rubricato come Conservatore, ma come “regressista”: dal momento che i suoi proclami sociali e civili hanno esibito il passo del Gambero. Le sue politiche “indietriste” non riesumano i giardini di nonna Speranza per celebrare un tempo-che-fu gonfio di idee, di virtù e di ricchezza esistenziale. Al contrario, il ritorno-al-passato del Governo in carica ha per sguardo l’occhio di Polifemo al fine di replicare liturgie classiste, discriminatorie, vuote di valori.
Al cospetto di queste pericolose derive, in compagnia di Franco Cambi daremo voce alle due architravi identitarie (democratica e interculturale) che vorremmo a sostegno di un lungo patto-di-stabilità della Scuola italiana: sia quando saranno i Progressisti, sia quando saranno i Conservatori (entrambi indisponibili a patti con i “regressisti”) al volante del Paese.

1. L’architrave democratica
IL DIRITTO DI TUTTI ALL’ISTRUZIONE. - Su questo pilastro-di-cemento (inamovibile e di lunga durata) sventola una bandiera che testimonia una limpida opzione democratica. Su questa, Franco Cambi appende una medaglia sulla quale sono incise le seguenti parole pedagogiche. Nell’odierna stagione inginocchiata all’altare del Mercato e del Mediatico (che santifica la discriminazione sociale e il consenso ideologico) - il sistema pubblico di istruzione ha l’improcrastinabile compito di farsi scudo-di-difesa del diritto di accesso e di successo delle giovani generazioni in uno dei rami di sbarco dalla Secondaria. Come dire, la trincea/Scuola ha il compito di farsi garante dell’uguaglianza delle opportunità formative dell’utenza maschile e femminile, agiata e povera, autoctona e di altra etnia. Traguardo possibile, a patto di affrontare con determinazione la crescita esponenziale della dispersione scolastica avvenuta con i ministri Moratti e Gelmini. Una dispersione sia “materiale” (generata dalle bocciature-ripetenze-abbandoni), sia “intellettuale” (generata dall’abuso di conoscenze parcellari che già hanno ridotto l'ambito del ragionare).
IL PENSIERO PLURALE. - Su questo pilastro-di-cemento (inamovibile e di lunga durata) sventola una bandiera che testimonia una limpida opzione cognitiva. Su questa, Franco Cambi appende una medaglia sulla quale sono incise le seguenti parole pedagogiche. Va dato palcoscenico a un’istruzione pubblica che assicuri alle giovani generazioni autonomia di pensiero e saperi di lunga durata. Traguardo perseguibile a patto di dare il volante in mano alle Competenze: le sole in grado di fornire alle “intelligenze” degli allievi più strade di entrata e di uscita per inoltrasi lungo i crinali della conoscenza. Siamo alle frontiere delle formae mentis, costrette - nell’odierna Scuola del lezionificio e blindata nei banchi - a tramontare al cospetto di saperi nozionistici, mnemonici e ripetitivi. Disporre di più-forme-di-pensiero é un traguardo irrinunciabile per le nuove generazioni. Una mission/obbligata per una Scuola che sta percorrendo i paesaggi del Ventunesimo secolo. L’odierno implacabile assedio elettronico impegnerà sempre più gli allievi a un’impresa titanica: essere in grado di cogliere e allacciare i fili di una gigantesca matassa cognitiva al fine di comprendere i nessi che legano insieme i tanti anelli sparsi delle conoscenze. A meno che le politiche dell’istruzione - come quelle populiste/regressiste - non intendano abbandonare le prime età generazionali, attonite e impotenti, tra flutti mediatici che formattano inesorabilmente menti plebiscitarie devote al consenso.

2. L’architrave interculturale
TRA CONVIVIALITA’ E SOLIDARIETA’. - Su questo pilastro-di-cemento (inamovibile e di lunga durata) sventola una bandiera che testimonia una limpida opzione relazionale. Su questa, Franco Cambi appende una medaglia sulla quale sono incise le seguenti parole della pedagogia:
“Mai nella Scuola va rimossa la centralità formativa del dialogo, dell’ascolto, dell’amicizia, della disponibilità, della cooperazione”.
A tal fine, i docenti sono chiamati a liberare tra le pareti del plesso scolastico un clima socio-affettivo positivo: tollerante e gratificante. Anche perché le conoscenze che gli alunni incontrano in una classe ricca di traffico emotivo/affettivo durano molto-più-a-lungo: tanto da godere di una buona manutenzione durante le stagioni post-scolastiche (adulte e senili). Nella Scuola va dunque azzerata ogni cifra di incomunicabilità e di inibizione al fine di porre gli allievi nelle condizioni migliori per esercitare il bisogno di convivialità, di incontro, di solidarietà.
Parimenti, mai nella Scuola va rimossa la centralità formativa della solidarietà. A tal fine, gli insegnanti sono chiamati liberare tra le sue pareti un clima comunitario in grado di respingere ogni forma di lottizzazione delle giovani generazioni in gruppi chiusi e autocentranti. Dunque, occorre dare ascolto e dialogo al cuore degli allievi: alle loro emozioni, alla loro voglia di cooperazione e di solidarietà. Occorre introdurre stabilmente nei luoghi dell’insegnamento-apprendimento dialogo e solidarietà al fine di alimentare tra gli alunni dinamiche interpersonali che diano senso e significato allo stare insieme per conoscersi e per imparare. Siamo convinti che in un sistema di istruzione dallo stile cooperativo sventoli la bandiera della Scuola/cattedrale: che coinvolge le giovani generazioni per i suoi riti e per le sue sacralità. In contropartita, chiede agli studenti impegno e fatica intellettuali per superare i sentieri ostici della cultura.
Con appassionata convinzione pedagogica chiediamo alla Scuola di non abbassare la guardia tradendo l’ideale educativo della cooperazione: che opta per caldi climi relazionali soleggiati dalla disponibilità-cura-aiuto nei confronti dell’altro/da me.
LA SFIDA DELLA DIVERSITA’. - Su questo pilastro-di-cemento (inamovibile e di lunga durata) sventola una bandiera che testimonia una limpida opzione valoriale. Su questa, Franco Cambi appende una medaglia sulla quale sono incise le seguenti parole pedagogiche. La Scienza maior dell’educazione - la Pedagogia - non può sottrarsi al compito di teorizzare un sistema pubblico di istruzione tra più/culture e tra più/etnie. Traguardo perseguibile se multicultura e intercultura vengono poste sullo stesso tandem della Formazione.
Siamo alla sfida della diversità. Possibile, per l’appunto, dando strada al tandem citato.
(a) La dimensione multiculturale si conquista in una società aperta e disponibile ad accogliere e a sperimentare forme “plurime” di linguaggi, di saperi, di pensieri nomadi, di stili culturali. Con questa finalità educativa: liberare un clima di reciproco ascolto, collaborazione, rispetto, solidarietà tra due (o più) comunità etniche. E’ possibile costruire una città multiculturale a patto di salire su una prima collina pedagogica dove si incrociano più rotaie linguistiche e culturali, più itinerari di pensiero e di valori. Significa instradare la formazione alla cittadinanza su più registri sociali, antropologici, assiologici: più carichi di senso e di significato in quanto più motivanti, coinvolgenti e prospettici rispetto a quelli monoculturali. Certo, una città multiculturale consuma la sua dimensione sociale e civile quando pone i cittadini nelle condizioni (conoscitive e coscienziali) di salire insieme verso questa asperità - impervia, ma di forte godimento vitale - che porta il nome di convivenza sociale. Sulla sua cima sventola una bandiera con questa scritta: se la conquisterai, potrai vivere significative cifre esistenziali di incontro, dialogo, convivialità, collaborazione, apertura al mondo degli altri.
(b) La dimensione interculturale, a sua volta, si conquista liberando forme di vita etico-sociale più evolute rispetto a quelle multiculturali. Costruita la città della convivenza sociale, l’idea-di-intercultura chiede a coloro che la abitano di alzare lo sguardo più in alto: lassù, troveranno le condizioni vitali per decidere se salire insieme verso una seconda collina pedagogica. Parliamo di quell’asperità - più impervia, ma di incomparabile godimento esistenziale - che porta il nome di contaminazione culturale. In cima a questa, sventola una bandiera con la scritta: se la conquisterai, potrai vivere significative forme di scambio/trapianto culturale. Siamo sul crinale dell’alterità: dove una comunità multietnica dichiara di essere pronta a concedere “tessere” del proprio mosaico culturale (non più inamovibile e ontologico) da scambiare e interiorizzare con i “tasselli” dell’universo socioantropologico altrui. La Pedagogia del trapianto reciproco prevede dunque la disponibilità a uscire da se stessi, a entrare in altri mondi di pensiero e di valori per poi ritornare - più arricchiti e più liberi - nel proprio antropologico modo di sentire, di vivere e di sognare.
(*) Franco Cambi insegna Pedagogia generale all’Università di Firenze.
E’ uno degli studiosi più autorevoli nell’ambito della filosofia dell’educazione, della storia delle idee educative e delle scienze pedagogiche.
Dal suo copioso scaffale, ci piace ricordare:
F. Cambi, Il congegno del discorso pedagogico. Metateoria ermeneutica e modernità, Bologna, Clueb 1986; Idem, L’educazione tra ragione e ideologia. Il fronte antidealistico della pedagogia italiana, (1900-1940), Milano, Mursia 1989; Idem, Mente e affetti nell’educazione contemporanea, Armando, Roma 1997; Idem, Storia della pedagogia, Bari, Laterza 1999; Idem, Manuale di filosofia dell’educazione, Bari, Laterza 2000; Idem, Intercultura: fondamenti pedagogici, Roma, Carocci 2003; Idem, Formare alla complessità (in coll. con M. Callari Galli e M. Ceruti), Roma, Carocci 2003; Idem, Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Roma, Carocci, 2006; Idem, Odissea a scuola, Napoli, Loffredo 2008; La cura di sé come processo formativo, Roma-Bari, Laterza 2010; Le tre pedagogie di Rousseau. Per la riconquista dell’uomo-di-natura. Genova, Il Melangolo 2011.









Introduzione.
Emergenze educative. Tra scuola saperi e società civile.


Questo quaderno di Riforma della Scuola riprende la nozione di “pedagogia critica”, largamente in uso a livello italiano, europeo e americano, come un costrutto-chiave per approfondire, oggi, i problemi educativi. In quanto li rilegge oltre la “datità”del presente e li sottopone a una rilettura sia teorica sia storica, comparando quel modello attuale con quello regolativo e teleologico di cui la “pedagogia critica” è custode. E deve esserlo in modo sempre più capillare e attento. Per non farsi catturare dalle ideologie, da fini mercantili, da alienazioni sociali etc. Perdendo così il soggetto nella sua autonomia formativa e nel suo ruolo critico nella società. Per dare sostanza, e storica e teorica, a questa “lente” ci si è mossi da una riflessione su La pedagogia della Resistenza: ieri e oggi, scritto elaborato per un seminario milanese tenutosi a marzo e organizzato da Guido Petter (che qui ricordo con stima e rimpianto, nei giorni stessi della sua scomparsa), che fa da preciso cappello ai temi stessi successivamente affrontati: ne fissa il telos e l’incipit (socio-politico) al tempo stesso. Di cui la pedagogia deve nutrirsi, e ben consapevolmente.
Poi tale modello critico della pedagogia viene contestualizzato in una società democratica, avanzata e aperta, per la quale agisce e dalla quale riceve precisa legittimazione. Postulandone anche una altrettanto precisa funzione: di stimolo a una cittadinanza attiva e autentica. Ma per dar corpo a questi fini socio-cultural-politici abbiamo bisogno di una istituzione di tutti e per tutti: la scuola. Una scuola democratica: e di massa e di qualità. Che è possibile, se essa si sviluppa in più libertà (come prospettava la “scuola dell’autonomia”) e con maggiore impegno di ricerca, creando negli allievi motivazione, pluralità di stili cognitivi, corrispondenza col mondo della cultura e orientando se stessa col principio della “cura”. In essa, poi, gli insegnamenti vanno rinnovati e nelle identità e nella comunicazione. Mai semplificati, anzi: vanno fissati nella loro costante innovazione e complessificazione costante. E qui si è cercato di esemplificare tutto ciò nella filosofia: insegnamento secondario fondamentale per tutti (e non lo è nella scuola della riforma Gelmini) e, pertanto, da ripensare in modo anche radicale, proprio tra innovazione e tradizione, ma senza timidezze. Sollecitando anche una nuova formazione degli insegnanti: e in entrata e in servizio. Da legare sempre di più alla ricerca: alla ricerca avanzata e alla ricerca-azione come percorso di formazione professionale.
Altre frontiere su cui può/vuole/deve agire una pedagogia critica possono essere quelle relative:
1) alla “cultura dell’infanzia”, da valorizzare e diffondere e far divenire modello vissuto in tutta, potenzialmente , la società civile e capace, in essa, di operare profonde trasformazioni (di valori, di comportamenti, etc.);
2) all’intercultura, che ha bisogno di nuove mentalità, nutrite di “differenza”/“incontro”/“dialogo”, capaci insieme di formare una mente e un soggetto più orientati al rispetto e al valore dell’alterità come pure al sospetto verso i pregiudizi; 3) a quella “pedagogia clinica” tipica dei luoghi di cura e di cui questi hanno sempre più urgente bisogno per svolgere in pieno il loro difficile compito. Tre frontiere appunto, in cui la stessa società civile viene a realizzare una sua più piena maturazione.


I.
La pedagogia della resistenza.
Ieri e oggi.

A Guido Petter


1. Un’esperienza di valori
Se alla Pedagogia della Resistenza dobbiamo dare un’accezione a partire dalla storia - e non risolverla in una categoria del fare-pedagogia, pur nobile e urgente - e dalla storia che ha ri-fondato l’unità nazionale e la nostra comune coscienza civile, è agli eventi della guerra di Liberazione (1943-45) e alle intenzioni del Comitato di Liberazione nazionale (CLN) che dobbiamo fare riferimento per leggerne la pedagogia civile e nazionale e, in particolare, la sua axiologia collettiva.
Lì in quel biennio e in quegli eventi si attivò il secondo Risorgimento che fece i conti con gli effetti del primo nell’Italia Unita e mise a fuoco un nuovo fascio di valori e di fini. Furono eventi di guerra partigiana. Di partecipazione popolare alla “resistenza” attiva, diffusa nella società civile. Di incontro collaborativo e unitario tra ideologie diverse e spesso contrapposte. Il tutto coordinato sì dal fare-azioni, dal darsi-strategie, dal condurre battaglie per liberare l’Italia e dall’occupazione tedesca e dal fascismo ricompattato nella esangue Repubblica di Salò; sì, ma ci furono anche momenti di riconoscimento di valori di base e comuni, momenti di una loro attuazione, e ciò avvenne sia nelle carte private (e si pensi solo alle lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana) sia in progetti più politici (l’organizzazione delle libere Repubbliche nelle zone liberate, come quella dell’Ossola), come pure nelle stesse carte politiche (gli atti del CNL in primis). E poi la stampa clandestina. E poi quella già attiva nell’Italia liberata.
Da tutti questi documenti emerge un quadro axiologico ben netto e preciso e ben consapevole di essere una svolta nel sentire collettivo, e una svolta in particolare etico-politica. Sono i valori della liberta, dell’uguaglianza, della comunità ad essere richiamati e, più operativamente, quelli del collaborare, dell’incontro ideale e attivo, dell’impegno fino al sacrificio di sé ma per portare pace e libertà per gli altri, per tutti. Sono valori condivisi, da proiettare nella società civile e da rendere coscienza nazionale.
Tutto l’operato tra Resistenza (che nasce assai prima della guerra, su tutto il fronte antifascista) e Liberazione (con battaglie, proposte, aggregazioni politiche, risveglio della società civile), fino alla vittoria del 1945, dà forma a un orizzonte axiologico nuovo, vissuto e vincolante, capace di far da guida alla nuova storia d’Italia, dopo il ’45 stesso. Già con l’Assemblea Costituente. Con la scelta repubblicana. Coi governi del CNL, poi sacrificati sull’ “altare” della Guerra Fredda. Lì comunque un nuovo modello di società e del suo governo prese corpo. Si affermò attraverso una collaborazione tra visioni del mondo diverse (liberale, cattolica, comunista, socialista, azionista), resa lì effettiva e pertanto possibile partendo da valori-obiettivi comuni. Presenti e precisi e forti. Si trattò, in verità, di un confronto ampio non privo di tensioni e di scarti, che avvenne in particolare nell’Assemblea Costituente, di cui rileggendo i verbali sempre più si colgono le convergenze e le stesse capacità di leggere il futuro, nei suoi compiti e nei suoi valori. Lì si costruì un’Italia nuova (anzi, nuovissima), ma che restò a lungo, molto, troppo a lungo irrealizzata (per varie ragioni: guerra fredda, ritorno del passato, ambiguità istituzionali, ecc.). Anzi, via via, fu sempre meno percepita come compito e come possibilità.

2. Il modello costituzionale
Certo con la Carta Costituzionale del 1948 questo orizzonte formale (=axiologico) e sostanziale (=organizzativo e operativo) viene fissato come nuovo spirito della nazione e viene riconosciuto come suo nuovo incipit. Pur tra le oscillazioni interne della Carta (più e più volte ricordate) lì si deposita un modello di società democratica, erede attiva del liberalismo e del consociativismo cattolico, dentro un orizzonte di crescita “socialista” (partecipativa ed emancipativo-egualitaria). Una democrazia avanzata i cui valori sono ben fissati nella parte più “sacra” della Carta (i Principi fondamentali) e ancorati a Libertà/Eguaglianza/Comunità/Partecipazione, come già detto.
La Carta, allora, e ancora oggi, va letta come lo specchio della Resistenza nella sua concreta storia, e come fondamento di una nazione democratica, che si vive anche come nazione ma senza retorica, piuttosto attivamente e axiologicamente, sempre secondo valori antropologici e sociali fondati sul primato della persona e sulla funzione promotrice dello stato. Due principio cari ai cattolici ma che stanno alla base della Carta già nell’art. 3. Poi le libertà di tipo liberale si innestano in una societas collaborativa e integrata dal e per il bene comune, che si apre anche ad aspetti federali (le Regioni in particolare), dentro un’idea di stato al servizio della comunità. E ancora: la pace come fine ultimo e come mezzo; la scuola come agenzia emancipativa di tutti (attraverso alfabetizzazione e diritto allo studio anche fondato sul merito). Sono elementi, tutti quanti, della nascita di un nuovo Stato-Nazione, democratico-liberal-comunitario che ancora dobbiamo interpretare, salvaguardare, portare a pieno regime. E oggi con maggiore forza. E proprio per gli attacchi che si fanno alla stessa Costituzione, vista come una frontiera da decostruire, ritoccare, trasformare. E anche radicalmente.

3. Nella crisi contemporanea
Sì, nella crisi attuale della società nazionale (e crisi molteplice e profonda) vanno, insieme, rilanciati la pedagogia della Resistenza e il modello formativo della Carta Costituzionale. Si tratta di un’operazione urgente e complessa. Da sviluppare su più fronti.
Primo: quello storico e teorico; che rivaluti lo “spirito” del ‘45 e la lunga storia dell’antifascismo; che denunci i vari “revisionismi” come ideologie quando non integrano la ricerca storica (come si è fatto per le Foibe, per la stessa Repubblica di Salò e la sua “fede” nera, pur da riconoscere come “fede”) ma si fanno messaggio politico per l’oggi. Revisionismi che vanno denunciati come deviazioni ideologiche e come compromessi col fascismo, storico e teorico.
Secondo: lo studio attento della Carta, nella scuola, nell’informazione e secondo vari tipi di intervento: dalla narrazione alla riflessione. E poi: nella scuola si faccia davvero circolare la Carta e la si legga davvero come fondamento della vita civile nazionale. Su di essa si aprano pure discussioni, ma sempre operative e non ideologiche. Anche interpretative: poiché esse rilanciano comunque il valore della carta e la sua funzione.
Terzo: si dia sviluppo a una cultura anche informativa e diffusa (in quella riflessiva e specialistica c’è da sempre) più matura, relativa a Resistenza/Liberazione, “spirito del ’45”, Carta Costituzionale, in modo da far conoscere quegli eventi e i loro valori. Spiazzandone ogni retoricizzazione e da qui un loro sostanziale oblio.
Quarto: si tenga attivo un confronto tra quei valori/principi/eventi e avvenimenti attuali o bisogni oggi diffusi: dal federalismo all’immigrazione ai movimenti di liberazione (si pensi solo al nord Africa attuale) per cogliere convergenze allineamenti ergo l’attualità stessa di quei principi e valori.
Compiti tutti che tra cultura (e anche di massa), informazione (Rai in testa) e scuola (con la sua ex-educazione civica ora rilanciata, ma poco attivata, come “costituzione e cittadinanza”) devono tener vivo sia un dibattito sia una strategia operativa che si fa ostensione realiter della “pedagogia della resistenza”.

4. Un piccolo catalogo di azioni educative
COLTIVARE IL PENSIERO CRITICO. - Senza pensiero autonomi, critico, dissidente, libero non c’è democrazia. E tale pensiero si forma dialetticamente, sempre. Lo sapeva già Socrate. Si fa interpretando, decostruendo, guardando da un altro luogo” e giocando insieme atteggiamento cognitivo e istanza valoriale, come ci ricordava tempo fa anche Rorty. Ed è la scuola ad esserne l’artefice. Se…, però. Non la scuola delle “tre/I”. Ma quella di cultura e di apprendimenti critici (fino alla media education).
ATTIVARE UNA VOLONTA’ AUTONOMA. - Formare personalità autonome, capaci, sì, di pensare ma anche di volere in proprio. Anche di sbagliare e di correggersi. Lì si manifesta in pieno la libertà che è valore base delle società moderne, inaggirabile e insostituibile. Da coltivare sempre. Già a scuola. Come nell’informazione. E nella cultura in generale. Attraverso punti-di-vista diversi e il loro confronto argomentato e argomentativo, mai guidato, imposto, etc.
VIVERE LA COMUNICAZIONE DEMOCRATICA. - È lo stare nell’incontro e nel dialogo. Con e tra differenze. Tra soggetti portatori di tali differenze etniche, culturali, religiose, sessuali etc. Attivando con tutti un discorso in comune che si organizza nel confronto, ma reale e vissuto: faccia-a-faccia. E esercitato come tale. Dove? Ancora nella scuola soprattutto. E poi altrove: nell’informazione, televisiva in particolare (che ha più impatto, che ci raggiunge ovunque e che tocca larghe masse).
IMPEGNARSI PER RILANCIARE/ALLARGARE LA DEMOCRAZIA. - Sì, la democrazia non è immobile, si estende o si restringe, a seconda dei momenti socioculturali e storici. Va quindi posseduta in modo organico nelle sue strutture profonde. E da un punto di vista sia storico, sia legale, sia vissuto. Una democrazia in progress e da rilanciare, aggiornare, sviluppare. Sempre. Per renderla capace di integrare il nuovo. Così realizzando anche una democrazia che si indaga e si ripensa. Ma non per attivare revisionismi, bensì per sviluppare crescita e integrazioni del modello democratico. E qui è sempre la scuola a dover agire per prima.
TUTELARE E DIFFONDERE I PRINCIPI DELLA COSTITUZIONE. - Da porre sempre alla base della coscienza civile. E per la loro forza e per la storia che li sostiene e li mantiene attuali. E vanno ben posti alla base della coscienza delle giovani generazioni, attraverso un lavoro scolastico non inerte, non formale, ma capace di rendere attiva e attuale la Carta. Promuovendo anche percorsi didattici significativi e nelle diverse aree disciplinari. Come già spesso si è fatto e si fa nelle scuole e nella stessa formazione degli insegnanti.
Principi tutti un po’ ovvi? Forse. Ma opportuni e necessari. Oggi e anche domani. Per attivare quella Pedagogia della Resistenza che è anche il costante ritorno alle nostre origini di Paese democratico avanzato e in cammino. Modello formativo da riconoscere, valorizzare, tutelare, interiorizzare. E rilanciare anche e sempre.

Bibliografia
M. Ainis, L’assedio, Milano, Longanesi, 2011;
L. Ambrosoli, La scuola alla Costituente, Brescia, Paideia, 1987;
N. Bobbio, Eguaglianza e libertà, Torino, Einaudi, 1995;
N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984;
L. Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1951;
F. Cambi, Antifascismo e pedagogia: 1930-1945. Momenti e figuri, Firenze, Vallecchi, 1980;
F. Cambi, Le pedagogie del Novecento, Roma, Laterza, 2005;
F. Cambi, Incontro e dialogo, Roma, Carocci, 2006;
Costituzione italiana (introduzione di G. Ambrosini), Torino, Einaudi, 1975;
La Costituzione della Repubblica italiana (con intervento di M. Travaglio), Firenze, Giunti, 2011;
Le lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1965;
T. Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla repubblica: 1943-1948, Roma, Editori Riuniti, 1976;
S. Veca, Cittadinanza, Milano, Feltrinelli, 1990
II.
Strategie formative per la democrazia

1. La democrazia oggi: crisi, trasformazione, sviluppo.
La democrazia proprio nel tragico corso degli eventi politico-sociali del Novecento, animati da scontri ideologici e da logiche dittatoriali, da volontà di egemonia planetaria e da scontri frontali tra classi sociali nettamente distinte e antagoniste, si è rivelata un relativo “porto sicuro” della organizzazione delle società avanzate. Di quelle che hanno oltrepassato dittature e oligarchie di vario conio e si sono attestate su un tipo di società contrassegnato dal pluralismo, dalla partecipazione, dalle regole e dall’equilibrio dei poteri e della collaborazione dialettica tra i diversi ceti sociali, in vista di una convivenza equilibrata e aperta al tempo stesso. La democrazia così si è imposta sia come valore sia come principio. Come forma trainante dell’organizzazione socio-politica e, in se stessa, aperta a evoluzioni progressive, a ulteriori integrazioni, a interventi di consolidamento, correzione, sviluppo perfino in nuove congiunture storico-sociali.
Sì, tutto vero. Però al confine tra i due millenni la democrazia si è rivelata, al tempo stesso, in crisi. E in crisi plurale. Relativa all’esercizio del potere (oligarchico e personalizzato fino al “sultanato”). Relativa all’esercizio dei diritti (catturati dai media, filtrati dalla pubblicità, etc.). Relativa alla cittadinanza: rito senza troppa partecipazione; risolta nella delega; espropriata già nella coscienza dei soggetti. Una crisi fatta di molte crisi, ma che sottopone il modello-democrazia a restrizione e a revisioni. A reinterpretazioni anche. A difesa: e rispetto all’Oligarchia, al Mercato, ai Fondamentalismi, alle Derive di un Disincanto che si fa Disimpegno, etc. La democrazia in crisi di ripensamento e di riadattamento in primis reclama difesa del suo stemma e del suo ideale, per poi passare alla disamina congiunturale di debolezze, di integrazioni, di affinamenti. E va difesa per non perderla. Come si rischia oggi secondo segni assai efficaci. E va difesa e nella teoria e nella pratica. E tale lavoro è in corso anche in Italia. Politologi e costituzionalisti, storici del diritto e (perché no?) pedagogisti sono impegnati su questa frontiera. Da Galli a Sartori, a Zagreblesky a molti altri che anche dall’estero agiscono sul dibattito italiano. E si pensi a Crouch.
La congiuntura è delicata e decisiva. Particolarmente in Italia, dove la democrazia della Costituzione è rimasta per lungo tempo o non realizzata (e si pensi alla Corte Costituzionale, alle Regioni) o poco richiamata (nella scuola, ad esempio, se pur presente come “educazione civica”). Anche interpretata guardando ai suoi compromessi più che alle sue potenzialità. Non solo: oggi tale democrazia è rimessa brutalmente in discussione secondo principi non di funzionalità democratica ma di superamento del complesso regime di garanzie, invocando più concentrazione del potere, più decisionismo, più richiami al carisma che alle regole. Ma così frana l’idea stessa della democrazia: che è plurale o non è; che è dialettica o non è; che esige controllo e dissenso al proprio interno o non è. La deriva italiana postdemocratica è stata dichiarata esemplare di una deriva videocratica della democrazia, possibile in un paese senza anticorpi di opinione pubblica rispetto alla deregulation (e si pensi al principio-dovere del “pagare le tasse” e a come è vissuto qui da noi) ideologica e statuale. Qui è più urgente 1) interrogarsi sul perché della “crisi della democrazia”; 2) riflettere sulle sue forme, attuali e possibili; 3) affermare il principio-democratico autentico; 4) indicare le attuali difese e i necessari sviluppi; 5) interiorizzare nei cittadini tale principio-valore; 6) indicare strategie efficaci di intervento sì politico, ma anche educativo: di costruzione di una forma mentis democratica diffusa, di un’idea di cittadinanza attiva che, spesso su opposte frontiere e in forme democraticamente asimmetriche, sta prendendo corpo nella stessa deriva del sistema politico (con mezzi e con forme nuove di “prender parola” e di resistenza all’esercizio tradizionale del fare-politica: come la crescita del non-voto ben testimonia).

2. Ricostruire spazi educativi.
In questa congiuntura la pedagogia/educazione sta immessa da protagonista. Per riflettere e per progettare. Sul valore/principio della democrazia. Sulle strategie di consolidamento e di sviluppo. Intorno al valore/principio la pedagogia italiana ha al sul attivo la tradizione azionistica, pur congelata che sia stata e in parte rimossa nell’esercizio del politico, dominato dalle Grandi Ideologie della Guerra Fredda e poi da uno stile di vita consumistico e disimpegnato. Ma non solo: anche la tradizione del pensiero americano, da Tocqueville a Dewey e su su fino a Kennedy e Obama; pensiero teorico e pratico, ma capace di rilanciarsi come sfida costante (e si rileggano le pagine politiche dell’ultimo Rorty). Come pure la tradizione del “bene comune” tipica del pensiero cattolico liberal-democratico (e si pensi all’ultimo richiamo di Scoppola) o quella della democrazia più socialismo cara a Gramsci (e a un Gramsci ormai sottratto alla logica del leninismo che non coincide affatto con la sua strategia politico-pedagogica, la quale si articola intorno a un’egemonia attuata attraverso il “blocco storico” e una profonda rivoluzione culturale di carattere liberal-democratico, con al centro i soggetti-persone e l’equazione governato-governante, la scuola e le accademie e il teatro etc.). Tale valore/principio va ripreso. Va aggiornato. Va integrato. Nella società dei Media e dei Consumi. Lì sta il valore politico del Moderno. E da lì – anche nel Postmoderno – bisogna ripartire. Complesso che sia. Difficile che sia.
Da qui la riflessione/progettazione di strategie anche nuove, anche nuovissime. Imposte dal mutamento della società e della cultura. Ma anche del soggetto. Imposta dalla scomparsa di fattori più tradizionali (le Ideologie, le Classi) e dall’avvento di una società nuova: multietnica, animata da differenze, manipolata dalla comunicazione di massa, omologata intorno al feticcio-Mercato e alle sue regole e ai suoi impulsi sociali. Una società “liquida” si è detto. Anche, ma non soltanto. Anche inquieta, dis-orientata, mobilissima e ossificata al tempo stesso. Una società che si fa costantemente problema a se stessa e pone al centro dell’interpretazione di sé la diagnosi sociologica che si fa specchio maturo del vivere sociale. Una società policentrica, polimorfa, alla costante ricerca di sé. Società nuovissima e difficile. A vivere e a interpretare. Dove la stessa cittadinanza si pluralizza, si problematizza, si dispone su molti fronti, attua molte voci diverse. Integrabili? Sì, e proprio – forse – come neo-modello di democrazia e come impegno pedagogico (o educativo/riflessivo) per dar corso a tale neo-democrazia in un tessuto sociale disperso e inquieto e alla deriva.
Non è che la pedagogia debba salvare la democrazia. Ciò spetta alla politica, e in molti sensi attuata. Le compete però tener vivo il modello-autentico di democrazia vissuta e realizzata come pure di indicare nuclei strategici da coordinare a tale principio-valore e sostenerli nel loro esercizio e di resistenza e di formazione. Di resistenza al post-democrazia fissato come regola e valore. Di formazione di nuovi percorsi per ridare corpo alla società democratica. Società che è il fondamento (e il supporto) stesso della democrazia politica. Come ci ha ricordato Dewey.

3. Le molteplici frontiere nella e per la società civile.
Se, come ci hanno ricordato Dewey e Habermas, ma a suo modo anche Gramsci (nella sua analisi dell’intellettuale come cittadino et invicem) e altri ancora, (fino a Sartori, fino a Cacciari), la società civile è il sale stesso della democrazia, che da lì si dà regole di organizzazione e di rispetto delle medesime: da lì elabora Costituzioni, rende attiva (nei luoghi delle decisioni) la “volontà generale”, vive l’ethos del “bene comune” e della res publica, vive la cogenza e la libertà della legge, ovvero la sua ri-codificazione. Allora è dalla società civile posta sotto analisi e attivata da processi formativi che la democrazia si aggiorna e procede oltre e contro il suo “post”. La rianima. La riafferma. La rende attiva. E, ancora, è a questo che stiamo di fatto assistendo, proprio in Italia. C’è un risveglio polimorfo della società civile, che è parallelo rispetto al degrado dei Parlamenti (ormai gestiti da partiti ridotti a segreterie: e la presente legge elettorale è un esempio-principe), all’indebolimento dei partiti (invecchiati rispetto all’immagine di società che li ha sostenuti fin qui e degradati a oligarchie; tutti, se pure in dosi e forme diverse), all’occupazione – di partiti o di lobbies – delle Istituzioni. Un risveglio ancora fluido, ma presente e visibile. Che può annunciare una ripresa della democrazia, un suo rilancio secondo “lo spirito” soprattutto, una sua ridistribuzione nella stessa vita sociale.
Certo si tratta di saper leggere i “segni dei tempi”, di interpretarli e di ordinarli, sviluppando con essi e per essi una strategia, la cui democraticità sta nel riprendere la parola, nel vincolarsi alla legge fondante del paese (la Costituzione del ’48) e a renderla sempre più attiva e nel dibattito politico e nella coscienza: un vero architrave della cittadinanza, nel tener vivo il dibattito e l’azione dello scambio virtuoso tra società civile e ceto politico e politica istituzionalizzata. Ma quali sono i “segni dei tempi”? Sono segni che anche in un seminario tenuto a Palermo di recente sono emersi da una discussione collettiva e posti all’attenzione come via di affermazione della società civile, del suo impegno collettivo e delle sue forme plurali come autentici motori del politico-democratico oggi.
Sono segnali che emergono attraverso il “prender parola” (come è avvenuto per il femminismo, per il gaysmo, etc.); attraverso il richiamo all’autonomia come difesa di gruppi, etnie etc. e come declarazione attiva del pluralismo; attraverso la parresia: come dire-la-verità, provocare, discutere, scandalizzare, ma per smascherare il potere e far emergere i bisogni; attraverso la coltivazione-di-sé o cura sui di ciascuno, come uomo e come cittadino, ma come uomo che fa da leva al cittadino stesso; attraverso l’autoconvocazione di gruppi e formazione di comunità virtuali on line, fluide forse, ma potenti per il loro prender-parola, per la vocazione alla parresia, per il rendere viva la società civile che ormai sta oltre l’Ideologia e il Lavoro; attraverso il risveglio delle istituzioni intermedie (la scuola) o di base (la famiglia) della società civile, fissando meglio il loro ruolo, la loro identità socio-culturale, il loro volto politico (legato proprio alla polis come societas e come res publica); attraverso la condizione multiculturale che deve farsi interculturale e deve darsi i fronti e le regole di questo “incontro e dialogo” che rinnova il pluralismo e riaggiorna gli accordi, e pubblici e interiore nomine. Sono cenni che avrebbero bisogno di essere decantati fenomenologicamente e teoricamente, dentro una cultura del politico che si sta rinnovando e che esce dal suo schema di Potere-Governo-Legge, per estendersi nella società civile e lì poter vivere la politica come vocazione sì, ma al “servizio”, al “bene comune”, alla tutela della comunità nazionale, statuale, costituzionale Qui non lo possiamo fare. Né è opportuno. Qui vale un discorso di sintesi e di prospettiva: sul post che è però anche neo e su un neo che è forcipe e seme nella e per la società civile, fattore senza il quale la stessa democrazia deperisce. Certo: in una società che omologa, che distrae, che uniforma perfino l’immaginario sono possibilità di minoranze, ma che rese consapevoli e fatte agire possono cambiare il volto della società civile, oltrepassandone condizionamenti, egoismi, localismi che sono altrettanto in crescita, ma che minano lo stesso statuto della democrazia con separatismi, federalismi chiusi etc., il cui successo è, al tempo stesso, un sintomo di una malattia della democrazia.

4. Tra pratiche-teoriche e organizzazione reticolare.
Che fare, allora? Dotare di coscienza e di strategia ogni nucleo strategico di risveglio della società civile sia esso strumento d’opinione, elaborazione culturale, gruppo d’azione legato a istituzioni o a idee e progetti, comunità virtuale in costruzione e in analisi, gruppi autoconvocati etc., e dotarli di una identità teorica, socio-politica, fornendo riflessione e modellizzazione, da animare con slogan, da rendere pubbliche, da far agire nei luoghi stessi della società civile ( scuola e famiglia e lavoro e associazionismo) e da porre all’attenzione dell’opinione pubblica, che è il centro-motore della stessa società civile. Tenendola viva e rendendola attiva nella societas/res publica. Questa è la prima mossa: dare identità; far emergere il pluralismo; attivare riconoscimenti e renderli saldi.
Poi c’è la seconda: fare rete, creare interazioni, stabilire modi di intesa, convergenze strategiche. Certo, si tratta di convergenze deboli, sottoposte a erosione, ma che ormai si attivano e si rinsaldano: strategicamente. E sono voci che anche nel fare-politica si fanno sentire: si pensi a Vendola o a Cacciari. E sono voci che intessono un nuovo modo di fare-politica e di far-vivere-la-democrazia, attivandone in se stessa le regole fondative e l’immagine autentica. Ma così restiamo al pre-politico? Al pre-organizzativo? Ad una strategia senza tattica? Può apparire, ma non è proprio così. La società, intanto, è mutata: è abitata da opinioni e pluralismi, che vogliono fare-strategia. E poi è un potere dal basso che si afferma rispetto a quello, già platonico, tutto pensato dall’alto, operando una rivoluzione radicale nel pensare/gestire il politico. Certamente sono strategie mobili, critiche, polimorfe, e sempre in divenire: ma questa è la conditio della “società liquida” e poi esse impediscono l’ossificarsi dei poteri e di chi li rappresenta. Tutto ciò erode il sistema politico moderno, come Stato, Apparati, Partiti, Organizzazione e Governo? Non proprio: li riporta dentro l’alveo-Costituzione e lì li rilegge nel loro stesso codificarsi (nella Costituzione del ’48 la parola “partito” è del tutto marginale: e ciò vorrà pur dir qualcosa), ma confermandoli come legittimi, opportuni, efficaci per riattivare la dialettica del potere nella democrazia. Che senza questa dialettica impoverisce e muore. Si delinea come “post”. E già Bobbio ce lo ha ricordato a più riprese.

5. La coscienza educativa e pedagogica.
Ma, allora, qual è il compito della pedagogia? Intanto declinarsi sia come pedagogia (pensiero dell’educazione) sia come educazione (attività di educazione) e su i due livelli identificare il proprio ruolo. Che è di sostegno e di decantazione rispetto a questo modello e ai momenti/movimenti che lo incorporano. La pedagogia come riflessione e come strategia formativa-sociale si accorpa sì al politico (e lo fu già con Platone, che pensò proprio la non-disgiunzione tra i due fattori di pensiero e azione), ma anche lo anima, lo stimola, lo corregge, lo incalza e gli impone di guardare e al suo Modello (qui quello democratico) e alle Strategie (che lo interpretano e lo vivono, oggi). La pedagogia impone di far-sistema tra Modello e Strategie, evitando separazioni, derive, oblio e dell’uno e dell’altro fattore o di fattori del fattore. Si tratta di un operari teorico-pratico complesso, tensionale, che rivendica a sé autonomia, che mai si fa “consigliere del Principe” o “mosca cocchiera” del Politico, bensì rivendica il ruolo di coscienza inquieta, di voce che incalza, di richiamo che guida e ri-progetta, ascoltando le voci che emergono dalla stessa società civile, autenticandole criticamente e organizzativamente.
Qui, ovviamente, è attiva una pedagogia come categoria cognitiva e culturale (e non solo e non tanto come “disciplina”). Una pedagogia di pedagogisti, di filosofi, di storici, ma anche di politici, di maîtres à penser sul piano socio-politico: una pedagogia di tutti potenzialmente. Ma che spetta, soprattutto, ai pedagogisti di professione calibrare nel suo statuto dialettico di teoria per la pratica e di pratica per la teoria, sviluppandone insieme e il Modello e la Strategia. E farsi di questo gioco complesso interpreti e attuatori al tempo stesso. Senza alcuna velleità egemonica, è ovvio, ma con autentico spirito critico e spirito propositivo al tempo stesso. Come ci ha ricordato sempre Dewey da Democrazia e educazione a Comunità e potere, a Problemi di tutti.

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III.
Verso una scuola di massa e di qualità.

1. Un ossimoro, una sfida, un modello?
“Massa” e “qualità” appaiono, applicati alla scuola, quasi concetti ossimorici. Sì, perché della scuola si ha, ancora oggi, un’immagine selettiva più che emancipativa, anche dopo il ’68 e le sue battaglie, dopo Don Milani, Illich o Bourdieu, tanto per fare alcuni nomi di de-mistificatori dell’agenzia-scuola. Dalla cosiddetta “fine della ricreazione” sugli anni Ottanta, Novanta e Duemila è tornata al centro l’immagine trasmissiva e funzionalista (rispetto alla società e ai suoi scopi attuali: produttivi, professionali, di efficienza) della scuola. Ciò ha rilanciato l’opposizione tra massa e qualità, e – come idea diffusa – la loro incongruenza. Anche se di massa abbiamo oggi un’idea meno valutativa e più descrittiva, più rivolta a fissare una condizione-di-vita, al suo interno assai articolata, che non una situazione totalizzante e omologata. Anche se di qualità abbiamo un’idea non riducibile al modello elitario, quindi selettivo e autocritico, bensì un’idea, anche qui, più articolata e complessa: come qualità quale efficienza organizzativa dei sistemi e, per la scuola, come convergenza di cultura, cittadinanza e formazione personale ( = individuale e sempre più autogestita, in relazione a vocazioni e capacità e progetto-di-vita).
Allora il binomio massa/qualità non è un ossimoro, né è pensabile nei termini di un Ortega ad esempio. Esso è, piuttosto, un modello-sfida (o una sfida da realizzare che si fa modello) il quale deve agire come compito: pensato in sé e nei percorsi della sua realizzazione. Ed è ciò che, di fatto, a livello di paesi avanzati, sta avvenendo da tempo. Secondo itinera differenziati ma convergenti. Certo, è una sfida in corso, quindi costellata anche di blocchi, di arretramenti, di deviazioni, e proprio perché il compito è complesso, e in molti sensi. Per il modello in sé. Per la sua realizzazione organica. Per il suo adattamento nei contesti socio-culturali, con le loro diverse tradizioni. Per le trasformazioni di cultura scolastica, pedagogica, epistemologica che ciò comporta nelle istituzioni e nei loro diversi attori. Ma il modello è in marcia.

2. L’identità in cammino.
E la marcia è in atto da lungo tempo. Prendiamo due classici del pensiero filosofico e politico, ma anche pedagogico: Dewey e Gramsci. Classici che sono stati anche portatori di modelli scolastici di alto profilo e di densa e lunga tenuta. La scuola-comunità-laboratorio di Dewey è una scuola per la democrazia: di tutti e per tutti, ma in cui il paradigma epistemico dell’indagine con la sua logica induttiva/deduttiva e il suo procedere sempre problematico si fa principio “fondativo”, per così dire. La scuola delineata in Democrazia e educazione (e siamo nel 1916) è proprio una scuola e di massa e di qualità e lo è consapevolmente. Si rileggano le pagine sulla scuola come “ambiente speciale” che interagisce con quello sociale e “rinforza in esso il potere del meglio” e lo fa attraverso l’allenamento delle facoltà, di tutte, guardando al “progresso”, come costante ricostruzione, riorganizzazione e innovazione. E offrendo a tutti gli strumenti per essere veri cittadini in una società mobile, aperta, democratica.
Allora la scuola è agenzia che promuove e verso il pensiero come “indagine” e verso una “società più sociale”, ma anche dà vita ( e solo la scuola può farlo), a un “uomo che una volta gode in pieno della conversazione con i suoi amici, un’altra volta gode nell’ascoltare una sinfonia o […] nel leggere un libro o nel guadagnare del denaro” (p. 307): un uomo onnilaterale, avrebbe detto Marx, un uomo emancipato, liberato, avrebbe detto Don Milani. Un modello antropologico e di qualità e per tutti.
Così anche in Gramsci: nei suoi Scritti del carcere, soprattutto, dove ripensa la forma politica della società industriale (si veda Americanismo e fordismo), ma anche si ripensa la cultura e l’antropologia di tale società in cammino. Cultura alta, diffusa e per tutti, che ha bisogno di una scuola ricostruita secondo modelli di cultura moderna (il trinomio lingua/scienza/storia) e secondo un rigore di apprendimento per tutti, scandendosi tra conformismo e creatività, secondo un iter evolutivo. L’uomo che esce da tale scuola ha uno stile di pensiero critico e una personalità aperta, socializzata ma non gregaria. La sua mente ha caratteri leonardiani, si è detto, il suo ethos è, ad un tempo, individuale e sociale, connesso a valori di partecipazione attiva ma anche di critica e, se non proprio di dissenso (tale categoria è estranea a Gramsci), certamente di libertà, sia pure riletta – sulle orme del marxismo classico – in modo assai problematico. Anche in Gramsci la scuola è regolata dalla cultura, è per tutti e guarda all’emancipazione.
Scendendo dai classici della pedagogia (e lì si potrebbe continuare, chiamando in causa Mounier o Suchodolski e molti, molti altri) a quote più modeste (organizzative e pratico-progettuali) si pensi ai modelli di riforma della scuola che si sono attuati nei vari paesi. Persino in Italia, a partire dal 1996 – dalla Commissione dei saggi, voluta da Berlinguer, fino alla legge e al Regolamento dell’Autonomia, oltre che ai lavori svolti da Commissioni, IRRE, Associazioni docenti in merito al modello scolastico da fissare, volere, realizzare. Anche qui il modello è lo stesso: dar corpo a una scuola prima unitaria poi diversificata secondo vari modelli professionali, ma rivolta a enucleare cultura e formazione e cittadinanza in tutti gli ambiti. Realizzando così la sfida ossimorica (apparentemente) del farsi di massa e di qualità.

3. L’ideal-tipo
Partendo proprio dall’esperienza italiana, non tanto legislativa e/o organizzativa elaborata a livello istituzionale, quanto, invece, nel suo iter anche e in particolare di costruzione dal basso, dalle associazioni, dalle scuole, dagli IRRE, dalle Regioni, dalle Università, etc., possiamo cercare di fissare il tipo-ideale di questa scuola attuale, seguendo le procedure indicate da Max Weber nella sua analisi del pensiero sociologico e storico, nella quale esalta proprio il lavoro che si fa attraverso l’applicazione ermeneutica dell’ideal-tipo e la dialettica delle interpretazioni (ovvero il conflitto e l’ integrazione) che l’applicazione di tale principio metodologico viene a fondare.
Siamo davanti – ideal-tipicamente – a una scuola che si incardina sull’autonomia rinnovando radicalmente la sua identità/struttura/funzione che muta la stessa professionalità docente, legandosi alla progettazione curricolare e all’innovazione epistemico-didattica dei saperi e alla loro finalità formativa integrata secondo un modello e fissata negli obiettivi, ma muta anche l’organizzazione del lavoro scolastico, accompagnato dal POF e aperto a integrazioni extracurricolari, ma formative sempre. Una scuola, inoltre, che deve controllare, attraverso l’autoanalisi d’istituto, e il modello realizzato e la sua stessa produttività e organicità strutturale, attivando un feedback sul proprio agire complessivo, dal più generale al più capillare. Non solo: questa è una scuola che si apre al territorio e alle sue risorse culturali e formative; che tutela la propria identità/tradizione; che promuove la formazione – attraverso seminari, gruppi di studio, dipartimenti di ricerca – di tutto il personale, per renderlo sempre più idoneo a promuovere e sperimentazione e innovazione e a stare nella complessità della scuola dell’autonomia. Tale ideal-tipo deve poi sapersi articolare nei vari ambiti soprattutto della formazione secondaria, tra pre-professionale e professionale, tenendo fermo anche qui il binomio (anch’esso non ossimorico) di cultura e lavoro (il lavoro non è cultura ? non produce cultura?) da ben equilibrare (e sperimentare in tali equilibri) nel corso della “scuola dell’ adolescenza”. Ma perché può essere definito e di massa e di qualità? Perché è un modello per tutte le scuole, di ogni ordine e grado. Perché mette al centro la cultura nella sua quota alta e formativa. Perché controlla l’istituzione-scuola muovendo da questi due “fuochi”, ora incrociandoli ora distinguendoli, ma sempre per permettere una sua ulteriore promozione secondo l’ideal-tipo fissato.
Certo, non mancano, in tale modello, rischi, derive, debolezze. Ci sono, eccome, già dubbi. Sulla licealizzazione della secondaria superiore o sulla sua scansione in tipologie scolastiche diverse, licei, istituti, professionali che, però, oggi appaiono da ripensare, da rinnovare, da trasformare. Sulle tecniche di autoanalisi d’istituto, da attivare, da calibrare sulla scuola (non su altre agenzie: tipo aziende), ma anche da rendere più agevoli. Sulla integrazione col territorio, con la società civile e le sue potenzialità formative/educative, a cominciare dal complesso, molto complesso, dialogo con le famiglie. Sul disagio, diffuso, dei giovani che tra bullismo, depressione, alcolismo, etc, portano a scuola un’identità “malata”, ma da interpretare, recuperare, riconquistare alla “normalità”, psicologica e sociale.
Qui, in questo tipo-ideale di scuola, massa e qualità si intersecano intimamente e problematicamente, risultando essere dispositivi per ri-attivare in modo critico sia un’identità complessa della scuola attuale sia la sua mission altrettanto complessa (e costantemente problematica: ovvero da pensare a ri-pensare).

4. Tra formazione e professione, tra cittadinanza e persona
Per quanto attiene all’allievo, al traguardo che la scuola deve permettergli di raggiungere, siamo davanti, ancora, a uno scopo assai complesso: articolato e anche dis-organico, anch’esso da pensare e ri-pensare (come accadeva già al modello ideal-tipico organizzativo globale). A parte subjecti tale complessità si colloca al crocevia tra formazione, cittadinanza, professione, personalità, concetti che scandiscono i poli del lavoro scolastico e anche, però, l’iter di crescita, via via che ci si inoltra nella “carriera” scolastica. Formazione è educazione + istruzione + coltivazione di sé. Cittadinanza è socializzazione democratica + partecipazione + conoscenza del mondo sociale oggi. Professionalità è scelta vocazionale, con possibilità di revoca; è conoscenza + competenza + abilità in un campo (ampio) professionale. Personalità è farsi soggetto-individuo come persona: portatore di identità propria, di una propria gerarchia di valori, di un proprio progetto di vita e di senso della vita (laico o no che sia). Se nella scuola dell’obbligo stanno al centro formazione e cittadinanza, se nel “biennio” si aggiunge la pre-professionalità di area e l’orientamento, nel “triennio” si decanta la via verso la professionalità e l’apprendimento culturale per una professionalizzazione in corso e/o futura. In tutti gli ordini e gradi sta l’impegno per costruire persone nella libertà e nella cura di sé e proprio nella dimensione del dare-senso. Certo è che il gioco tra formazione/cittadinanza/professione è mobile e varia nei tempi e nei luoghi, ma è, se guardiamo la scuola dalla parte dell’utente (drl “cliente” primario), altrettanto certo cha da qui passa proprio il poter/saper realizzare una scuola e di massa e di qualità che operi, sempre, per l’emancipazione. E dei singoli soggetti e della società nel suo complesso

5. Postilla 2010
Questo modello di scuola, che è stato in cammino, sia pure secondo ottiche diverse dal 1996 al 2007, ora in modo più organico (con la legislatura di centro-sinistra '96-'01 e poi '06-'07) ora in modo più “revisionista”, ma in qualche modo anche dialettico (rispetto a quel modello, con la legislatura di centro-destra 2001-2006), si è nel 2008 arenato. Con la nuova legislatura di centro-destra si è andati, con molta decisione, verso una liquidazione di tale modello e dei suoi obiettivi. Si è risaliti ad un’idea di scuola tradizionale (più autoritaria, più trasmissiva, non-innovatrice: dichiarandola “del buon senso” e “dell'ordine” e “della qualità”) e la si è pensata come la migliore e per il presente e per il futuro. Attivando uno strabismo singolare e a sfondo squisitamente ideologico. Immemori della massima deweyana secondo cui se e quanto la società cambia (e qui sta cambiando, e come!) anche la scuola deve ripensare se stessa nel cambiamento, per essere adeguata ai tempi e alle sfide culturali e formative che in essi maturano. No, si è preferito rifugiarsi in un' immagine scolastica d'antan, rassicurando da un lato il cittadino medio (che idealizza, sempre, la scuola del passato) e inibendo ogni progettazione innovativa: de-legittimandola.
Ma l'ideal-tipo scolastico dell'autonomia è ormai del tutto in archivio? No. In molte scuole continua ad essere operativo, lo si usa come regola, lo si coltiva e nella didattica e nella formazione. L'autonomia resta legge, infatti. Certo è, però, che tale “resistenza” ha bisogno di sostegno: e politico e scientifico. Da qui l'urgenza di un lavoro intellettuale sulla e con la scuola che ne tenga aperti i problemi e il modello di riforma che è cresciuto, qui da noi, e dal basso e dall'alto e si è imposto negli anni Novanta come il modello di una nuova scuola moderna. Lavoro intellettuale che devono sì fare le scuole (in autonomia), ma che deve essere accompagnato da una “sponda” universitaria capace di formare dirigenti e docenti, di darsi strumenti operativi capillari ( riviste, collane editoriali), di farsi sentire nella stessa stampa (che ospita, in genere, voci di attacco alla pedagogia e di esaltazione del ritorno alla cosiddetta “scuola del buon senso”, che assomiglia sempre di più – invece – alla “scuoletta” ottocentesca: impari del tutto ad affrontare i problemi istruttivi e formativi del presente).

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J.Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962
M.Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 2003
IV
Differenza, incontro, dialogo.
Tre categorie transdisciplinari per l’educazione interculturale.


1. Sul dispositivo “intercultura”
Oggi si parla molto di “multiculturalismo” e della sua crisi. Crisi perché tiene fermo un pluralismo non organico, non di confronto, ma – alla fine – di separazione. Crisi ideale e strategica al tempo stesso, che mostra i limiti di quel modello, soprattutto anglosassone, di convivenza di culture (Inghilterra, USA, Canada etc.). Esso risulta fondato sul tollerare più che sul costruire insieme e rifugge dal “meticciato” e, pertanto, ricrea gerarchie e sanziona differenze, in quanto non attiva comunicazione tra le culture stesse. Si è detto: tale crisi del multiculturalismo si presenta sotto due aspetti, entrambi incapaci di fare-integrazione. Quello che assimila emarginando (vedi Francia). Quello che difende le differenze culturali ma non crea collaborazione e riconoscimento (USA e non solo). Touraine lo ha ripetuto anche di recente: bisogna battere un’altra strada, di «uguaglianza nella differenza» e di combinazione di unità e pluralismo. Infatti da più parti a questa ottica solo liberale si contrappone, ormai, un’ottica di confronto/dialogo/collaborazione, pur sapendo che tale frontiera è ardua e complessa. E molto. Carica di resistenze, di arretramenti, di ansie perfino e poi di conflitti. Ma è l’unica via di incontro reale e costruttivo tra le etnie/culture che ci sta di fronte. Ed è la via dell’inter-cultura che si colloca oltre la tolleranza e reclama al centro proprio l’incontro e il dialogo. E’ in questi termini che la comunicazione fra le culture ci sta davanti come vero Compito Epocale. Sì, proprio. E ci sta davanti sia de jure sia de facto 1.
Quanto al “fatto” è la Globalizzazione già in marcia che produce un Mondo più unificato e più interconnesso, che miscela etnie e culture, modelli di vita e forme di psicologia, e quindi reclama scambi e scambi intenzionali, capaci di produrre comunicazione e interazione. I movimenti di gruppi, la rottura delle frontiere, le coabitazioni che la Globalizzazione mette in gioco reclamano un ripensamento plurale e sintetico al tempo stesso dell’abitare-un-luogo, come pure fa emergere regole comuni dentro una nuova forma-di-vita in cui tutte le etnie, culture etc. sono irretite. Questo “fatto” apre, già di per sè, delle possibilità. Ma da tutelare, da far valere, da render comuni.
Per il de jure è l’Orizzonte Culturale nuovo che va sottolineato Un orizzonte che è in cammino già dal terreno squisitamente teorico, dopo l’avvento del Pluralismo, dell’Interpretazione, della Decostruzione quali paradigmi di una cultura che si legge a dimensione planetaria e che mette al centro la categoria dell’Acculturazione, come dominante e regolativa. Categoria complessa e dinamica, carica anch’ essa di tensioni. Infatti l’«acculturazione», a ogni livello, miscela, crea transiti, ibrida. E lo fa o implicitamente o esplicitamente. Nel primo caso usa anche mezzi di dominio, di integrazione forzata, ma che si rivelano sempre come porosi. Nel secondo si legge lo stemma dell’acculturazione e lo si fa regola, lo si gestisce (almeno il più possibile) e più consapevolmente.
Da questa complessa congiuntura d’epoca emerge e si impone il bisogno di pensare con precisione cos’è l’Intercultura, come la si fa e come la si fa agire sul piano cognitivo, etico e sociale. E tale strada è soprattutto pedagogica, poiché sono il da-fare e il costruire-insieme che ci stanno di fronte, a livello e teorico e pratico. Cioè tener fermo un Progetto (axiologico, sociale, operativo) e una Strategia/Tattica (di realizzazione, scandita in luoghi, in azioni, in un fascio di tecniche). E di entrambi i fronti la pedagogia è il contenitore più esplicito. Ancora: e di fatto e di diritto. Si tratta, anche, di costruire un modello culturale che fin qui è stato messo spesso ai margini, perfino aspramente criticato e de-legittimato. Almeno fino a ieri. Con la vittoria di Colonialismi, di Totalitarismi, di Nazionalismi. Tutti legati a monoculture, a atti di dominio, a inglobazioni verticali delle differenze (o, spesso, alla loro destructio, macro o micro che fosse; anzi e macro e micro: legittimandosi sia nelle politiche sia nelle mentalità). Ma anche oggi: con l’azione di Integralismi e Fondamentalismi (etnici, religiosi, politici) capaci di produrre ideologie di conflitto e logiche di separazione e di ghettizzazione, cariche di pregiudizi e di rischi sociali al tempo stesso.
Allora: oggettivamente parlando (e, ancora una volta, per via di fatto e per via di diritto) il nostro è il Tempo della Costruzione di una Cultura Planetaria, che si tratta di accompagnare da ora attraverso la valorizzazione di un Metodo: quello appunto dell’Inter-cultura. Metodo che aprirà prospettive nuove tra le culture, darà corpo a nuove acculturazioni, farà emergere métissage e ricombinazioni fra i modelli in corso, che per ora ci restano imponderabili. Anche se effetti efficaci del métissage sono in atto e con forza. Il capitalismo e la democrazia, da un lato. I diritti umani, dall’altro. E poi il dialogo interreligioso. I diritti delle donne a quelli dell’infanzia. Il diritto ai consumi e all’istruzione. E si pensi solo all’evoluzione della cosiddetta Cindia, ma anche alle rivolte in corso nel Maghreb, alla crescita economico-sociale del Brasile, alle stesse tensioni per diritti, crescita democratica, sviluppo economico che attraversano l’Africa Nera. Possiamo dire che un modello culturale post-occidentale è in cammino, irrorato da principi maturati proprio in Occidente, ma ormai ri-costruito e integrato da un dialogo planetario, che fa riemergere valori ultimi (come la pace, come il dialogo, come i diritti umani) e li pone come regolativi dell’incontro inter-culturale.
Sì, l’intercultura ha al centro un’axiologia (e un’axiologia pedagogica) fatta di fini-ultimi, regolativi, utopici perfino. Ma forti e netti. Essa mira a una ri-costruzione dell’ anthropos. Come ebbe a riconoscere padre Balducci, guardando a quell’“uomo planetario” che è in votis e in cammino. Dotato di coscienza plurale, post-etnica, incardinato sulla reciprocità e la collaborazione. E sempre aperta e riaperta. Sì, certo: tutto ciò produce anche resistenze, come già detto. Fughe all’indietro. Arroccamenti. Negazioni dell’incontro e del dialogo. Seguendo così le logiche degli integralismi. Che sono tanti. Che frenano il processo in corso tra etnie, culture, popoli: e processi di convivenza e di integrazione. Ma che – come si vede ormai con chiarezza – non riescono affatto a fermarlo. Allora pensare l’Inter-cultura e pensarla pedagogicamente (come modello da realizzare, e in teoria e in pratica) è Compito Primario del nostro tempo. Di un tempo, poi, che sta sempre più proiettato verso quel suo futuro che ne agita il presente e reclama di essere portato alla luce. Con difficoltà? Con sofferenza? Anche, ma non necessariamente, se la gestazione del nuovo viene collegata a un dialogo cultura /politica che è soprattutto ancora pedagogico: progettuale e attivo-pratico al tempo stesso, di cui il politico stesso deve farsi interprete e gestore.
L’intercultura è un compito e una speranza. E’ bisogno reale e obiettivo possibile. Ma da ben possedere nel suo “dispositivo”. En théorie e en pratique come detto di sopra. Attraverso una teoria-e-pratica che è pedagogica “per struttura”, anche quando si dice per via antropologica o filosofica o politica, muovendo ora dalle culture, ora invece dalla riflessività critico-radicale, ora anche dalla neo-polis che dobbiamo realizzare in un tempo in cui la storia-mondo è sempre più l’orizzonte del nostro essere-nella-storia. Che è pedagogica poiché progetta e attiva formazione per gestire la trasformazione. E formazione di menti, di etiche, di cittadinanze. Di soggetti, di gruppi, di comunità.

2. Tre categorie-chiave
Questo modello di Cultura Planetaria in Cammino, di cui non conosciamo il profilo finale, ma di cui conosciamo bene, invece, la logica animatrice e costruttiva, va teorizzato e praticato al punto di intersezione (e lineare e dialettico) di Tre Categorie-Chiave, su cui la cultura attuale ha con forza e perspicacia posto l’accento, come categorie-generative di un Salto di Civiltà. La Differenza. L’Incontro. Il Dialogo. Tre categorie di lunga storia, anche contraddittoria, ma che nella contemporaneità e sociale e culturale e antropologica (e perfino politica) si sono imposte come Dispositivi di Orientamento. E pertanto da chiarire, organizzare, sviluppare e poi diffondere come principi operativi. Anche Dispositivi da tutelare. E criticamente. Per evitare un loro fraintendimento o per via di retoricizzazione o per via di delega a un tempo ulteriore. No. Sono categorie dell’Oggi e che oggi vanno possedute e fatte agire. Da subito. Allora il primo compito (pedagogico-teorico) è possederle à part entière: nella loro “pienezza” e anche nella loro complessità. Poi dovranno essere poste “alla prova”, in varie condizioni, in diverse aree, con varie (= articolate) strategie. Ma prima si tratta di definirle nel loro stemma organico e compiuto, quale ci è imposto dalla riflessione attuale e proprio a livello transdisciplinare pensando tali categorie come veri “collettori” del presente anche a livello di riflessione culturale. Ma di questo tra poco. Per ora fermiamoci sulle tre categorie: fissandone- (per sommi capi)- strutture, funzioni, attualità.
La Differenza. La differenza come pluralismo e come diversità, posta come dato e come valore è una categoria-chiave del Novecento. E scientifica e riflessiva: si pensi alla biologia della diversità e si pensi ai richiami cognitivi e ontologici alla differenza. Un testo come quello di Derrida dedicato appunto alla differenza (La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971) ne decanta ad un tempo l’attualità e la specificità. Differenza è lì continua differenziazione e disseminazione di forme, che rompono l’organicità del sistema e producono ri-articolazioni e innovazioni costanti. La logica della differenza si lega alla proliferazione e propulsione di forme nuove e si delinea come regolata dal principio del «rizoma» (Deleuze). E’ un modello a cui deve ispirarsi la nostra (postmoderna e postmetafisica) visione del mondo, la nostra conoscenza (che deve oltrepassare e il fondamento e il sistema e il metodo), la costruzione stessa del nostro io (che è, in sé, multiplo, conflittuale, squilibrato, anche se proiettato sul dar vita a equilibri, ma sempre più mobili e precari), la realizzazione del nostro comunicare (carico di resistenze, deviazioni, sottintesi: mai lineare e sempre polimorfo e magmatico). La differenza si è imposta come forma del reale e del pensiero e nei saperi e nella riflessione, declinandosi come categoria-guida nella cultura attuale. Dotata già di una sua storia significativa: da Nietzsche a Heidegger, a Derrida, a Deleuze e oltre (a Lyotard, a Nancy etc.). Una storia che ne legge lo stemma e la funzione in vari ambiti e che ce la consegna come categoria-compito. Da pensare e ripensare. Da applicare anche alle varie forme e della cultura e della stessa vita personale e sociale. Un contributo che è stato essenziale nella storia del Novecento e che ne ha cambiato i profili di teoreticità, di comunicazione, di eticità etc. Perfino di esteticità. E, come già accennato, di soggettività. Una vera “rivoluzione” che è ancora in marcia. E che trova nell’intercultura un suo campo di approfondimento e di applicazione. Di ostensione e di diffusione.
L’Incontro. Stare nel pluralismo e legittimarlo è anche favorire occasioni di incontro e di scambio fra diversi. E necessariamente. Solo che l’incontro può essere di vari tipi, fino allo scontro, al rifiuto, alla persecuzione. E ciò accade se si mette la sordina alla differenza e come dato e come valore e la si coglie, invece, come deviazione, contrasto etc. partendo - per via antropologica, cognitiva, anche riflessiva (nel pensiero metafisico, che è pensiero del Fondamento) - dal primato assoluto dell’Uno e del Modello. La realtà, invece, è plurale, e, così, anche il pensiero deve esserlo. E lo è, di diritto, se si lega alla differenza. Ma lo è, di fatto, se si dispone sul fronte dell’incontro e dell’incontro come apertura. Che significa confronto col diverso e confronto reciproco, che nel suo processo di incontro produce scambi, prima ancora riconoscimenti, poi un tessuto di condivisione e di dialogo e attraverso il dialogo, che proprio l’incontrarsi viene a postulare. Un tema quello dell’incontro che attraversa la riflessione antropologica (e esistenziale-personale e culturale) contemporanea. Che si sviluppa in analisi storiche di “occasioni mancate” (come ha fatto Todorov nel suo La conquista dell’America, del 1984). In analisi di conflitti etnico-religiosi e di classe (come ha fatto Emmanuel Le Roi Ladurie ne Il carnevale di Romans, nel 1981). In teorizzazioni di artes atte a sviluppare incontro tra diversi, ora sociologiche, ora educative, ora anche etno-psicologiche, tutte ben rappresentabili in ricerche di ieri (= passato prossimo) e di oggi.
Il Dialogo. E il dialogo stesso deve definirsi in senso antropologico ed etico-politico, oltrepassando ogni sua astrazione e/o retoricizzazione. Pertanto va autenticamente definito e mostrato anche nelle sue aporie, tensioni, scarti possibili, come pure nelle sue potenzialità e nelle sue uscite. Tra le aporie stanno gli ostacoli linguistici, mentali, etc. che permangono dentro il dialogo. E qui una pratica di coscientizzazione può essere precisa ed efficace. Poi stanno le formalizzazioni del dialogo stesso, che si fa apparenza di fusione di orizzonti e niente affatto metamorfosi delle coscienze e delle mentalità. Ma il dialogo – vigilato, regolato, potenziato secondo il suo statuto di dia-logos e di comunicazione che apre a un’esperienza di fare-comunità – è potente: apre orientamenti, mette in atto una pratica di riconoscimenti, fa vedere la differenza nella sua radice, e, quindi, la partecipa. Ce l’accomuna. Pertanto il dialogo è potente: se aperto, senza reticenze, in cammino verso lo scambio, proiettato sul valore-del-meticciamento che è tale proprio perché dà corpo a una comunità più larga (se pure anch’essa insidiata da rischi: di gerarchie, di domini, etc. rimuovibili però e ancora attraverso il dialogo), disposta oltre i pregiudizi e attiva per l’integrazione costruttiva (e non passiva). E di tale dialogo, denso e potente, oggi conosciamo metodi, modelli, risultati. Possediamo le tecniche operative tra i soggetti, nei gruppi, dentro le comunità. Da Gandhi a Capitini potremmo dire. Ma passando per i richiami socratici di un Dolci, su su fino a quel comunicare connesso alla “coscientizzazione” (alla Freire) che crea comunità e comunità costruita sul comunicare (e non su a priori: di fede, di etnia, di credenza). Lì si costruisce quell’etica della solidarietà che realizza una comunità e una comunità aperta e aperta a far riconoscere via via obiettivi universali come regolatori comuni dello stare-nel-dialogo (quali la pace o quei diritti umani sopra indicati).
Siamo davanti a tre Categorie-chiave integrate. Categorie-chiave per l’inter-cultura, che è sfida e bisogno ad un tempo, oggi. Categorie di alto, altissimo profilo e storico e antropologico e culturale. Di cui proprio le scienze umane e la stessa filosofia sono state artefici e custodi. Ed è, allora, con quei saperi che tali categorie si descrivono e si affinano. Ed è tale apertura interdisciplinare che le nutre e le consegna alla pedagogia, la quale si fa collettore teorico e pratico di questa ricerca anche articolata e talvolta perfino dispersiva, ma finissima e cruciale. E cruciale per definire/possedere/applicare tali categorie, appunto, altrettanto cruciali. E farle vivere nel nostro tempo, inquietissimo e aperto; e che deve pensarsi/volersi nell’apertura.

3. Lo statuto inter/trans-disciplinare.
E’ proprio nell’incrocio organico di psicologia, sociologia, antropologia e filosofia che tali categorie si costruiscono e si fissano nel loro stemma e nel loro valore. E la pedagogia - sapere di saperi e “collettore” teorico e pratico di essi, e quindi punto di sintesi organico-produttiva, e a sua volta critica (poiché si tratta non di “sommare” ma di interpretare e riorientare e applicare) - svolge un ruolo e di sintesi e di disvelamento al tempo stesso. Sintesi come ripresa trasversale e organica, appunto. Disvelamento come riconoscimento e come proiezione attiva, epocalmente connotata, ma - ancora - criticamente fondata, e proprio nel disporre alla sintesi.
L’antropologia culturale è, forse, la disciplina veramente chiave che ci guida a ri-pensare le tre categorie. Ci offre definizioni, metodi, pratiche. Ci nutre di uno sguardo di pluralismo che incrocia sì un sano “relativismo”, ma lì non si ferma. Procede verso l’incontro e il dialogo, di cui possiede molte chiavi appunto: dalla comprensione all’acculturazione, tanto per esemplificare. Così la psicologia e/o la sociologia ci portano dentro realtà plurali (l’io e la società) e ce le mostrano nella loro dialettica interna, ma fissando in tale dialettica un compito omeostatico (pur sempre provvisorio) e che nasce solo dall’accordo delle diversità. Implicando il dialogo (tra io e sé; tra gruppi sociali) come gesto e pratica di apertura verso l’altro e come riconoscimento dell’altro da me come altro me, in quanto variante della comune appartenenza antropica. La filosofia poi rilancia le tre categorie in modo radicale e riflessivo: le mostra nel congegno e nella funzione e etica e politica e cognitiva. Da Derrida a Lévinas, al nostro Calogero, nel discorso filosofico tali categorie-princìpi si affinano e si esaltano e si impongono nella loro piena epocalità e si dispongono ad essere, insieme, diagnostiche e terapeutiche. La pedagogia poi si colloca al crocevia di questi saperi e pensa con loro e oltre loro il proprio modello: formativo. Ovvero modellato attivamente/produttivamente sull’io, sulla società, sulla cultura e pensato come regola e come valore, da tener fermo e rendere vivo al tempo stesso. E la pedagogia lo sta facendo attivando le due ottiche (teorica e pratica) e intersecandole secondo un modello maturo: quello, appunto, interculturale. Di cui la pedagogia, più di altre discipline, è stata l’ispiratrice e la custode. Anche qui da noi. E forse qui più che altrove. Il che è significativo in relazione al ruolo proiettivo/produttivo che ha il sapere pedagogico. E proprio perché si colloca su una frontiera plurale e organicamente orientata nello stesso tempo. E che guarda dal presente al futuro. E che collega pensiero e azione. Come già detto di sopra.
Qui da noi, in Italia (più che altrove: a parte il caso-Germania, che ha avuto sviluppi paralleli rispetto all’Italia, che ha anche influito sulla stessa riflessione pedagogica italiana; e si pensi a Portera, che ha alla base anche una conoscenza del pensiero/azione tedesco in questo campo e nel quale nutre le sue strategie e teoriche e pratiche, ma anche a Borrelli per la sua analisi del postmoderno o a formare e la sua pedagogia della Bildung), l’intercultura già alla metà degli anni Novanta era ben riconosciuta nel suo identikit e nel suo valore/funzione e nella sua attualità proiettiva. Il pensiero di Franca Pinto Minerva è stato su questo piano esemplare. Come pure le riflessioni di altri pedagogisti fino a Cettina Sirna, forse un po’ anche al sottoscritto, ad Antonio Genovese e altri ancora.

4. Prospettive conclusive
La pedagogia integra i saperi della Differenza/Incontro/Dialogo e li integra criticamente e dialetticamente, dando corpo a un dispositivo organico e teorico e pratico, fissandosi come sapere-chiave dell’Inter-cultura. Come il suo sapere – forse – più specifico e consapevole. Poiché ne gestisce l’integrazione critico-dialettica. Infatti, in pedagogia, la differenza reclama l’incontro (poiché si lega a soggetti, a vissuti, a situazioni) e lo reclama per permanere e per superarsi senza produrre scontri o rifiuti (i quali fanno arretrare in relazione al rispetto delle differenze e al loro riconoscimento come valore) e nell’incontro esige il dialogo (e sempre per il faccia-a-faccia che impone, trattando soggetti-persone coinvolte in un processo di formazione, e sociale e individuale). Nella pedagogia le tre categorie si integrano e si saldano. E dinamicamente. Anche problematicamente. Ma si saldano in modo produttivo. Sia sul piano teorico: si rimandano e si sostengono dando sviluppo a uno stemma complesso, sì, ma organico. Come pure su quello pratico: impongono di costruire spazi di riconoscimento e di co-abitazione di differenze e di incontro e di dialogo in cui i tre elementi sono strutturalmente compresenti, sempre, e vi fungono da regolatori, ancora dinamici. Allora la pedagogia integra e regola tali categorie e le coniuga, in tal modo, tra la teoria e la prassi, fissandole proprio sul loro “congegno” dialettico e quindi svolge un ruolo insostituibile e cruciale tra i saperi umani. Per costruire soggetti, culture, società plurali nella comprensione e unitarie nella solidarietà e nel riconoscimento. Una sfida propria del nostro tempo. Per alcuni la sfida, più urgente e carica, ad un tempo, di luci ed ombre. Ergo da ben pensare, tutelare, organizzare.
Ma la pedagogia tratta (fissandone il valore e la corretta gestione) anche l’agenzia di differenza/incontro/dialogo che deve essere tenuta presente come modello: e teorico e operativo. Come struttura esemplare e come luogo d’azione primario. Ed è la scuola. La scuola è comunità di diversi che da virtuale deve farsi reale: deve integrare senza omologare, sempre, e in ogni caso o aspetto; deve far-comunicare nel riconoscimento reciproco; deve creare incontro e attivare dialogo, ed essere capace di relazionare incontro e dialogo anche tra le resistenze e le aporie e, anzi, spesso attraverso di esse. Non solo: la scuola non tratta solo soggetti con appartenenze (diverse) ma li lega insieme per fare-cultura, che è apprendimento, ricerca, sviluppo di creatività, di riflessività, di cura di sé. Allora apre nella cultura il dialogo, inglobando le culture in un gioco tra loro dialettico e costruttivo di intercultura. E poi: nella scuola non c’è gerarchia, anche se il gruppo-classe (o gruppo-scuola) vive le sue dinamiche di gruppo (di esclusione, di gerarchizzazione etc.), ma sempre le vive in metamorfosi e mai legittimate come forme regolative-finali dello store-insieme. Allora, diciamo così, la scuola è l’agenzia giusta (poiché esemplare) per fare-intercultura. Per averne un modello consegnato per ri-crearlo altrove. Dove? Nell’associazionismo, nelle comunità di lavoro (anche il lavoro fa cultura), nei quartieri etc. Scolarizzando la società? No, niente affatto. Ma trasferendo quel modello nei vari habitat, riattivandone proprio la struttura di metodo e di scopo. E anche per questo la pedagogia si dispone proprio al centro stesso dell’Intercultura.

5. Postilla
Non c’è un rischio, non c’è un condizionamento (e etnico-culturale e ancora etnocentrico) implicito nell’inter-cultura, già nel suo riconoscimento come regola ulteriore dell’Occidente e come necessità epocale da gestire da e in funzione dei modelli proposti dal Mondo più Avanzato? Un rischio ancora di dominio? Un condizionamento ideologico: e di forma – legato al pensare, sull’imporre una regola – e di contenuto- un’idea di pax urbanizzata, sottoposta al vincolo di una ratio universale, ma posta come tale da una “parte” del consorzio umano? Sì, siamo davanti a problemi reali. Anche ulteriormente da criticare: tra intercultura come Ideale e la globalizzazione come Mercato non corre nessun rapporto? Proprio nessuno? E ancora: non è l’Universalismo greco-cristiano-borghese che ancora fa da interprete e da legislatore? E potremmo continuare. L’intercultura può essere letta, anche, o come retorica o come ideologia. Almeno come suoi rischi/condizionamenti immanenti e possibili. E li deve “sciogliere” preliminarmente e proprio per legittimarsi. E lo deve fare con riflessioni di grana fine. Decostruttive di questo ulteriore “pre-giudizio” e interpretative di questa sfida critica interna. Sviluppando una più attenta e approfondita autocomprensione.
Primo: il rischio che un neo-imperialismo “dal volto umano” si celi in questa neo-ideologia della borghesia capitalistica e della sua cultura del dominio. Un imperialismo soft, che pur nella differenza fa co-abitare e dà spazio ai valori del più forte (capace di gestire il dialogo anche perchè si trova a casa propria). Tale rischio è reale. Ma c’è altro, molto altro. C’è una condizione storico-socio-culturale nei paesi avanzati che esige di essere pilotata, risolta e di esserlo secondo giustizia. Di qui l’intercultura come modello e come compito. E il dato è inaggirabile.
Secondo: un rischio di ideologismo culturale diffuso che cavalcando la congiuntura riafferma primati e funzioni-guida. Sì, forse. Ma il messaggio finale è contro “primati” e “guide”: è un messaggio di collaborazione, di intesa, di costruzione-insieme. A parte il fatto (alla fine casuale) legato alla parte del mondo che promuove tale modello e lo pensa come compito.
Terzo: che le categorie di Differenza/Incontro/Dialogo stanno nel DNA di una cultura (quella occidentale) e ci stanno con tensioni e ansie e paure, ma ci stanno. Sono categorie occidentali e da queste si pensa e si organizza il nuovo dell’ inter-cultura. Non è ancora un atto di etnocentrismo? No, se quelle categorie emergono dentro quel mondo e con le sue tradizioni è chiamato a pensarle. Non si pensa, infatti, nel vuoto. Né mentale né linguistico. Certo, ciò impone di leggere e rileggere quelle categorie nella congiuntura nuova: di affinarle in essa, di renderle anche più sofisticate e nuove. Con un lavoro interpretativo e riflessivo costante che poi, di fatto, si sta facendo. E lo si fa con un’ottica strettamente interdisciplinare, che sia capace di radiografare lo stemma teorico e storico di tali categorie. Sottoponendole a un’analisi costante.
Allora i rischi (neoimperialistici, neoretorici, neoideologici etc.) dell’intercultura sono sì reali, ma soprattutto ipotetici. L’iter che essa vive nella cultura/società contemporanea si colloca anche oltre e contro questi rischi, sviluppando un impegno di analisi e di gestione che oltrepassa in modo continuo la linea d’ombra di questi pericoli. Certo è, però, che il Dispositivo-Intercultura e il suo Apparato Categoriale vanno sottoposti sempre ad Analisi Radicale e in senso Teorico, Storico, Strategico. Senza questo punto-di-fuga quei rischi si materializzano e bloccano l’innovazione di quel processo, deprivandolo della sua funzione di Utopia e di Speranza (alla Bloch) come pure di quella di Forza Planetaria (su cui ci richiamava con decisione Ernesto Balducci). E’, allora, su questo complesso e cruciale orizzonte che dobbiamo attestare l’intercultura e lì coltivarla con decisione e con acribia al tempo stesso.















V
Insegnare filosofia a scuola: note minime.

1. Un’idea di scuola secondaria
L’insegnamento filosofico nella scuola secondaria è stata ed è una vera conquista di formazione critica, di sviluppo cognitivo, di cittadinanza critica e responsabile. Proprio perché la filosofia è metariflessione: sulla cultura, sul pensiero, sulla società. Quindi è sigillo compiuto di tutto un iter formativo. Ed è un sigillo da potenziare in tutte le scuole superiori (a partire dai bienni) e in tutte le diverse tradizioni scolastiche europee (dove, invece, è presente solo in parte). E ciò è possibile: 1) tenendo ferma un’analisi significativa dei sistemi scolastici, criticamente sviluppata; 2) sviluppando un costante affinamento dell’“insegnare filosofia”; 3) fissando un’idea di scuola secondaria che tenga conto dei bisogni (individuali e sociali) e dei compiti (ancora formativi, e individuali e sociali) che devono contrassegnare, oggi, l’istituzione-scuola.
Allora: come e per quali fini deve organizzarsi oggi la scuola superiore? Professionalità (o pre-professionalità) e cittadinanza, ma anche formazione-di-sé. Dialetticamente integrati in un curriculum aperto, flessibile, sperimentale. Una scuola per il soggetto, risvegliato alla cura-di sé. Una scuola per la democrazia aperta; modello socio-politico che il soggetto deve possedere culturalmente e praticamente. Una scuola per una professionalità capace di rinnovarsi, integrarsi, trasformarsi. Allora una scuola che si fa interprete responsabile dei bisogni educativi/formativi. Che li risolve in istruzione/formazione calibrata per quei soggetti, hic et nunc . Che reclama una capacità docendi più complessa, più sottile, più articolata (tra sapere disciplinare, comunicazione, transdisciplinarità, innovazione, sviluppo della didattica). Che fissa il curricolare nei suoi fini e nei suoi mezzi, ma apre anche al non-curricolare (= extra) in chiave formativa e ad esso dà spazio nello stesso agire scolastico (il POF). Che verifica via via il proprio operato: e lo valuta e lo corregge, sia nel suo organizzarsi sistemico sia nel suo coordinarsi e istruttivo e formativo. E’ questa l’idea attuale di scuola. Di una scuola funzionale a società complessa, soggetto in continua formazione e in crescita verso l’autoformazione, sviluppata su saperi e comunicazione, capace di rinnovarsi nei suoi scopi e nei suoi ‘itinera’, proprio per aderire al ruolo democratico che la guida e realizzarlo in modo costante in una società in costante mutamento, sviluppo e complessificazione.
E’ il modello della scuola della “autonomia” che va tenuto presente come regola. Tra l’altro il modello che è sintesi dell’analisi istituzionale e sociologico critica della scuola, delle ricerche sulla comunicazione nel gruppo e interpersonale, dei risultati articolati della pedagogia contemporanea, come teoria della formazione e come teoria e pratica della didattica. Un modello che era in corso e che dobbiamo reclamare ancora come il più attuale e riaffermarlo come guida. E proprio dentro la scuola stessa e nel suo operari quotidiano.

2. Frontiere dell’insegnamento filosofico
C’è poi il secondo quesito: quale insegnamento filosofico? Per quale formazione? Come organizzarlo? Fermiamoci, prima di tutto, sul tipo di insegnamento. Qui da noi, in Italia, abbiamo alla base una tradizione: quella gentiliana del 1923, che sostituì il modello teoretico del positivismo (logica, psicologia, scienza) e fissò l’unità di filosofia-storia della filosofia (con tutto il suo valore e con tutte le sue ambiguità e insufficienze), come pure scandì tra storia e testi tale insegnamento, con indubbia finezza, ma anche con molti equivoci. Da quel modello si è partiti già nelle “revisioni” degli anni Cinquanta/Sessanta e poi Settanta/Ottanta/Novanta per declinarne le vie di oltrepassamento e di riattivazione critica.
Il quesito è stato: insegnamento storico o per problemi (teorico)? L’aut aut è stato, via via, declinato come et et, aprendosi a forme varie di sperimentazione dell’unione (integrata e dialettica) dei due modelli; come accadde già negli anni Settanta/Ottanta e come resta documentato dal lavoro svolto dalla SFI o da riviste (“Paradigmi”, ad esempio). Lavoro fine, di analisi e di proposte. Che ha affinato la sensibilità pedagogica e didattica di tale settore dell’insegnamento secondario. Insegnamento storico come? Per quadri d’epoca? Per autori? Per correnti? Un po’ tutto questo, ma dando alla storia la funzione di sfondo/di orizzonte, consegnata a un buon manuale (buono: sintetico, ben organizzato tra sfondo e voci, disposto su più fronti; tipo “testo di filosofia” teorizzato da alcuni filosofi nostrani). Da usare – appunto – come orizzonte in cui collocare testi, problemi, autori: da pensare come volume unico e da usare liberamente avanti e indietro. Lì anche collocare il lavoro per “problemi”: per temi teorici che partono dal qui-e-ora e dall’esperienza stessa del discente. E sono temi “eterni” (chi sono? da dove…) e temi “congiunturali” (la tecnica; le culture e il dialogo; la violenza; la “città sana” – ovvero giusta – ; etc.) ma costanti. Da analizzare con un libero andirivieni temporale e epocale e con un netto impegno teoretico. E anche sul lavoro filosofico svolto per problemi esistono sperimentazioni diverse: interdisciplinari (ovvero connesse a un dialogo tra saperi intorno a un tema comune), modulari (ovvero per approfondimenti definiti di un tema in un tempo), secondo lavoro a gruppi etc. Qui c’è bisogno anche di testi monografici/problematici: elementari, ma densi. Che trovarono spazio nell’editoria. Che oggi sono meno presenti. Ma che è possibile riprendere e sviluppare. E in vario modo. Ma la filosofia è insegnamento che ha valenze anche psico-esistenziali, che coinvolge il soggetto, che lo lega alla cura sui e lo è in quanto si sviluppa come “pratica filosofica” soprattutto. Come regolatore di quella crescita personale/interiore dell’io/sé che è, sempre, l’ultimo fronte (e il più alto e complesso) della stessa educazione/istruzione a scuola e di cui la scuola attuale è ben consapevole di essere un attore nient’affatto marginale. Ma ciò ne rinnova e potenzia tutta l’operatività innalzandola verso quote anche più sottili, quasi impalpabili ma che stanno, e sempre, dentro l’atto-di-insegnare.
La filosofia deve (sì, deve) articolarsi tra storia (modelli, epoche, lessici, che formano il corpus-tradizione da cui sempre si conosce, si parla, si argomenta etc.) e problemi (quesiti che animano in modo costante il pensiero filosofico siano essi permanenti o congiunturali, ma che sempre si impongono come “fondanti” e “specifici”, anche nel loro stesso sviluppo argomentativo: riflessivo, autoriflessivo, critico-radicale, etc.) e cura-di-sé (risveglio del soggetto, di quel soggetto a pensarsi nella coltivazione di sé, attraverso la riflessività e l’interiorità come pure attraverso lo “spirito” universale – in cui ciascuno abita – che ci fronteggia come corpus culturale e che umanamente ci appartiene). La triade di momenti e modelli deve poi, e sempre, trovare una sintesi e una sintesi efficace, capace di saldarli e in equilibrio e in tensione al tempo stesso, in modo da rendere fertile la loro integrazione dialettica.

3. Linee per la didattica
E’ poi la didattica a sciogliere, concretamente, il coabitare delle tre prospettive fissate di sopra, partendo dal “caso” concreto (quella classe, quei soggetti, quell’ habitat culturale) e lì innestando un progetto di integrazione dei tre fattori, favorendo ora l’uno ora l’altra soluzione, ma tenendo ferma la permanenza proprio di quei tre elementi/fattori/prospettive di assimilazione della filosofia.
Più concretamente: si pone al centro ora il manuale storico oppure l’approccio modulare ovvero la pratica filosofica? Dipende. Importante è, però, che i tre elementi si sviluppino reciprocamente e si integrino a formare un modello dinamico e aperto e in costante ri-aggiustamento e/o interazione. Certo, c’è nella nostra scuola una tradizione che è storicista e che coinvolge il primo fattore. Va bene, teniamola pure come sfondo, ma da integrare e correggere, con sondaggi tematici (= teoretici, specifici per problemi) che possono essere accolti in vari modi (moduli di approfondimento teorico; lettura di un testo – o più –; discussioni con documentazione messa a punto tra docente e studenti; etc.) ma sempre con lo scopo di entrare nel vivo del filosofico e nella sua pervasività problematica. Per dare spazio, anche, alla pratica filosofica che è cura-di sé. E che può avvenire in molti modi: lettura, scrittura, discussione. Ma che va tenuta presente e proprio in risposta alla richiesta dei giovani attuali, alla deriva, disincantati, esposti all’ “ospite inquietante” o nihilismo (Galimberti) ma aperti anche alla ricerca della “vita autentica” (Mancuso). Richiesta sottovoce? Forse. Ma ferma. Richiesta di vivere se stessi e di viversi in modo totale. Rispetto alla quale la scuola non può tacere. Anche se deve parlare nella e per la libertà, come le impone il suo agire con la cultura e per la formazione, contrassegnate entrambe, appunto, dalla libertà, e costitutivamente.
Stare in una didattica flessibile e aperta significa, alla fine, proprio stare-nella-sperimentazione. Ciò a sua volta esige una mentalità didattica dei docenti legata proprio alla sperimentazione e alla ricerca-azione che devono farsi atti condivisi, programmati, monitorati anche e di cui i Dipartimenti dei vari istituti devono farsi carico e porre al centro della programmazione collettiva.
Vivere questa flessibilità è, forse, la competenza professionale oggi più richiesta dai docenti di filosofia (oltre la più stretta competenze disciplinare e anch’essa da aggiornare e affinare), ma che è anche la più difficile: problematica e sempre in fieri. Comunque necessaria, se si vuol realizzare in toto lo stemma formativo della filosofia nella scuola secondaria. Rendendola formativa e della mente e della cittadinanza e dell’io. Come è opportuno che sia a un livello formativo-antropologico del filosofare, ancora del tutto estraneo a ogni specialismo.

4. Strumenti e obiettivo-finale
Quale strumentario dovrà darsi tale insegnamento plurale e tale didattica articolata? Strumenti nuovi. Forse un “libro di filosofia”, come già detto, diverso dal manuale storicistico. Piccoli quaderni tematici, con letture, antologie, spunti di collegamento e di riflessione. Collane di testi: brevi e semplici, ovvero leggibili e comprensibili, evitando i Grandi Classici, se non accolti nelle opere più lineari. Percorsi multimediali che vanno da problemi a testi a foto, a variazioni interpretative, permettendo di sviluppare una silloge tematica anche personalizzata. Pratiche di discussione (per accedere all’argomentazione e ai suoi topoi e alle sue forme) e pratiche di scrittura (pensieri, saggi, schemi) ma anche ipotesi di stili cognitivi (spiegare, formalizzare, dimostrare versus comprendere, interpretare, decostruire etc.) e di stili comunicativi (aforisma, ad esempio; oppure fiaba-saggio alla Voltaire; etc.).
Il tavolo dell’insegnare filosofia si fa complesso. Il suo strumentario articolato e rivolto proprio ad alimentare la trilogia di fini (e di mezzi) che deve attraversare tale insegnamento e renderlo più denso e pregnante per formare soggetti autentici per una società democratica aperta. Le scelte didattiche, sì, si fanno in loco (in situazione), ma tenendo ferma una teoria della didattica (filosofica, qui) che ne illumina i percorsi e i traguardi e ne fissa i mezzi rinnovandone gli equilibri reciproci e le flessibili potenzialità.
La professionalità dell’insegnante di filosofia, oggi, si è fatta più ricca, articolata e complessa. Ed è di qui che bisogna partire per formare tale insegnante. E in entrata e in servizio. Dotandolo di un’idea di professionalità mobile e sperimentale soprattutto. Come richiesta da una disciplina polivalente (qual è la filosofia) e dalla stessa “scuola dell’autonomia” (che è poi quella più idonea a tener viva e aperta una vera società democratica).


Bibliografia
P. Calidoni, Insegnamento e ricerca in classe, Roma, La Scuola, 2004
F. Cambi, L’esercizio del pensiero, Roma, Armando, 1994
F. Cambi, Odissea scuola, Napoli, Loffredo, 2008
F. Cambi, F. Firrao (a cura di), La filosofia per i nuovo licei, Roma, Armando, 2004
F. Frabboni, La scuola della riforma, Milano, Franco Angeli, 1998
F. Frabboni, Il laboratorio, Roma-Bari, Laterza, 2005
D. Folscheid, J.J. Wunenburger, Metodologia filosofica, Roma, La Scuola, 1996
F. Minazzi, Insegnare a filosofare, Manduria, Barbieri, 2004

VI
La cultura dell’infanzia: un problema planetario.

Alle piccole vittime di Gaza,
a ricordo delle violenze attuali sull' infanzia.

1. Globalizzazione e cultura dell'infanzia
La condizione globalizzata del mondo attuale, e da riconoscere come in costante ascesa, ci impone di ripensare l'identità dell'infanzia oltre i paradigmi dell'Occidente moderno e della sua scoperta e cura e controllo del bambino e governo attento della sua crescita. Sì, tale paradigma è, anche nell'Occidente moderno, e di classe e proprio di alcune aree geooculturali, mai generalizzabile. Ma è, comunque, In ascesa: per riconoscimento e per interiorizzazione da parte del mondo adulto. Se pure esposto a nuovissime erosioni e cadute: i media lo fanno scomparire, nota Postman; la famiglia nucleare e "coatta" riproduce “pedagogia nera”, ricorda la Miller; la pubblicità fa del bambino una merce, affermano in molti. Purtuttavia il paradigma resta centrale e condiviso e sempre più eticamente vincolante: ed è molto poiché anche assai produttivo e nella società e nelle istituzioni educative.
Ma oggi altre infanzie sempre più ci raggiungono, da varie parti del mondo e mostrano come la nostra idea di infanzia sia limitata e poco esportabile nelle società del Terzo e Quarto mondo, proprio là dove i bambini sono più numerosi e sono più spesso vittime. Sono le infanzie dei paesi delle Grandi Povertà, emarginate, abbandonate, violentate, sfruttate (e nel lavoro e nelle guerre). Infanzie senza educazione: vittime designate dell’indifferenza del Mondo o quasi. Viste come un inevitabile prezzo da pagare alla disomogeneità delle culture e delle società. Poi la globalizzazione ci porta anche queste infanzie “in casa”. L'immigrazione di nuclei familiari dal Terzo/Quarto mondo e i "minori non accompagnati", su cui anche qui da noi c'è un mercato infame.
Allora la cultura dell'infanzia è disomogenea per distribuzione. Sta concentrata, al più, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo (Europa e USA + Canada + Australia). In altri luoghi è ignota e impossibile. Ma, oggi, questa non-cultura dell'infanzia ritorna anche nel Vecchio/Nuovo Mondo, rischia di spiazzare – nei fatti – il paradigma della scoperta e delle cure e della tutela. Di aggirarne la presenza e di mandarlo, in un tempo di crescita della popolazione e di crisi delle economie e delle società, sempre più indietro, forse fino a porlo in un cono d'ombra. Come le violenze, gli sfruttamenti, gli abusi ancora presenti, anche qui da noi, testimoniano in modo netto.

2. Nel mondo più avanzato: saperi, cure, diritti
Sì, però il Mondo Avanzato sa di aver elaborato un modello culturale d'infanzia e del rapporto con l'infanzia che va riconfermato, valorizzato, diffuso e non solo per via culturale, bensì anche per quella sociale e politica. Quel modello è un'alta conquista culturale, forse una delle massime dell'Occidente (con l'individuo, la libertà, la democrazia etc.), e pertanto va costantemente esposto e ripreso, va diffuso e confermato in una sfida appunto globale, costruendo attorno ad esso un progetto politico culturale, come fa l'UNICEF e come fanno anche tante associazioni private di aiuto al Terzo/Quarto Mondo. Attorno a quel modello vanno costruite politiche: economiche, sociali e culturali. E di quel modello va resa operatrice la scuola, in tutti i paesi. Quel modello è nato dall'incontro di saperi (psicologici, pedagogici, psicoanalitici, sociologici anche e perfino letterari e filosofici e storici) che ci hanno rivelato l'infanzia, la sua diversità e il suo valore. Aspetti che hanno imposto sia il mito dell'infanzia (tutto culturale, ma fine ed emblematico) sia la pratica di cura, e di una cura specifica: di tutela, di accoglienza, di sostegno, di dialogo, di accompagnamento senza intrusione. La cura pedagogica appunto. Ma cura che nasce dal riconoscimento di diritti. Dei diritti del bambino a un quieto sviluppo, al riconoscimento dei suoi bisogni, al rispetto di questi (relativi al gioco, alla sicurezza, alla tutela etc.), all'istruzione e alla libertà.
È dalla miscela di conoscenza, di cura e di diritti che è nata quella cultura dell' infanzia che è, sì, ancora minoritaria, ma che va diffusa e imposta, in un dialogo aperto e critico con le varie culture, e diffusa da un'Agenzia significativa, come 1’ONU. Allora è a questo livello di internazionalizzazione che oggi dobbiamo lavorare, oltre che a tutelare lo stesso modello che si fa (e deve farsi) paradigma, ad approfondirlo anche e a fissarlo nelle sue pratiche e nelle sue istituzioni-chiave-e-guida, per renderlo attivo, sempre più attivo: e qui (in un Occidente che è oggi più a rischio nel rendere attivo e definitivo tale paradigma) e là (dove una cultura di tutela dell'infanzia non si è affermata e rischia di rinviare sine die tale necessaria svolta: e necessaria per la qualità della vita di tutti, a livello planetario).

3. Tra scuola e costume
Allora “che fare”? Qui e ora, ma anche per il là e per il domani, abbiamo a disposizione due possibilità: una istituzionale e una culturale. La scuola e la cultura che si fa costume. La scuola per la prima infanzia, per la seconda infanzia, per la preadolescenza. Una scuola che parla di diritti e che si leghi alla cura. Una scuola di cui abbiamo i modelli e che anche si diffonde. Si pensi alla scuola montessoriana e al suo successo planetario e al ruolo di “fecondazione” che essa ha avuto e ha nei vari paesi dal Primo al Quarto Mondo. Anche se va via via sempre ri-pensata, ri-attualizzata, ri-lanciata. Ed è solo un esempio. Ma pregnante, poiché il montessorismo si è voluto subito come modello planetario, universale. E per questo ha agito. Ma anche il modello di Reggio Emilia di scuola dell'infanzia che è, ormai, anch'esso planetario opera in questa direzione. Offre una cultura dell' infanzia per la scuola dell' infanzia: complessa, sottile, avanzata, e con essa opera in modo esemplare e felice.
Allora: è attraverso le scuole, ripensate su modelli come questi, capaci di mettere al centro il bambino, il ragazzo, il preadolescente, i loro diritti e lo stesso diritto alla cura, che si può e si deve rendere sempre più universale il paradigma. E una scuola di cui gli Stati devono farsi sostenitori e garanti. Tutto ciò, però, ha anche bisogno di un percorso complementare: quello culturale. Che crei costume educativo, crei visione del mondo infantile, crei condizionamento culturale e ideologico, che orienti sì le pratiche educative, ma anche la cultura sociale, il diritto stesso e le politiche. E ciò può farlo solo una “rivoluzione culturale” capace di rendere planetario il paradigma occidentale, sia pure integrato e variato? Forse sì, se si lega a istituzioni: dalla scuola all'ONU, se si dà voce negli stati, a partire dalle diverse “società civili” pur embrionali che siano.
Forse, solo un Grande Movimento Internazionale e di cultura e di politica potrà salvare l'infanzia e imporla come paradigma culturale collettivo, sul quale si misurano – soprattutto – gli sviluppi dei popoli e delle loro culture e dei loro stati. E non solo o soprattutto sul PIL. Sì, certo, possiamo domandarci: ma è ancora questo un atto di dominio dell'Occidente, di una sua volontà di colonizzazione, di omologazione della cultura, di non rispetto delle differenze? No, niente affatto. Quando si toccano i diritti umani (infantili e non) ci si colloca oltre le culture, su un tavolo comune e tendenzialmente planetario, su cui tutte (le culture stesse) possono riconoscersi come al proprio "grado zero" e come al comune criterio d'incontro e d’intesa.
E quelli del bambino sono, tra i diritti umani, i più fondamentali e che possono essere sentiti come tali da tutti se, al di là dei modelli antropologico-culturali, si parte proprio dalla relazione col bambino, inscritta nell' anthropos già a livello biologico e, pertanto, universale. E che è possibile far valere come Norma. Costruendola insieme. Da qui l'importanza anche di questo convegno che ispirandosi al grande Aporti, ripensa l'istituzione formativa per la prima infanzia ma anche l'idea stessa di infanzia.



Bibliografia
E. Becchi, D. Julia (a cura di), Storia dell'infanzia, 2voll, Roma-Bari, Laterza, 1996
F. Cambi, S. Ulivieri (a cura di), lnfanzia e violenza, Firenze, La Nuova Italia, 1990
F. Cambi, L. Trisciuzzi, L’infanzia nella società moderna, Roma, Editori Riuniti, 1989
M. D'Amato (a cura di), Per un’idea di bambini, Roma, Armando, 2008
A. Miller, La persecuzione del bambino, Torino, Boringheri, 1987
N. Postman, La scomparsa dell’infanzia, Roma, Armando, 1984
VII.
Tre riflessioni sulla pedagogia clinica.

1. Da tempo si sta assistendo alla crescita e definizione teorica, strategica e operativa di una “pedagogia clinica” che dovrebbe affiancare e integrare le varie attività mediche o di recupero sociale o di trattamento di marginali etc. Tutto ciò nasce da una doppia evoluzione da parte delle discipline psico-analitiche come pure da quelle mediche. Le prime operando un décalage dal patologico al normale (accogliendo le tesi di Canguilhem che ne ridescrivono i confini, mostrando in tale dualismo un pre-giudizio e, per noi, oggi, un sostanziale errore) e sviluppando procedure di incontro, sostegno, aiuto con i soggetti (tutti, potenzialmente) che manifestano squilibri e problemi, ma anche con soggetti “normali”, venendo incontro, così, a un’analisi più precisa e compiuta del loro io e delle sue strutture più “profonde”, anche se non matrici di disturbo. E’ un po’ la via della “clinica della formazione” di Massa, che ha avuto in lui e nei suoi allievi un significativo sviluppo. Le seconde si muovono dal piano più medico, più psicoterapeutico e tendono ad operare in contesti “strutturali” per la cura, siano ospedali, carceri, comunità terapeutiche etc. Lì la “pedagogia clinica” ha un volto più tecnico-medicale e affianca e integra e sviluppa proprio il principio di cura, senza sostituirsi a figure mediche o titolari di terapie specifiche, ma potenziandone il lavoro sul soggetto, in un gioco stretto di collaborazioni e di affiancamento dei contesti di cura, fissandone le capacità formative presso i soggetti, quelli, e non in generale, per favorirne una crescita interiore capace di collaborare alla cura e di potenziarne gli effetti. La “clinica”, quindi, viene vissuta sia come pratica psico-analitica sia come pratica medica ad hominem.
E’ un settore in crescita della pedagogia, e proprio perché ne fa vedere la necessità là dove si compie un trattamento di cura (medica), ma la propone anche come tecnica di auto-formazione (sotto la guida di un esperto) che porti più “ego rispetto all’es” come già indicava Freud. Un settore in crescita anche perché interpreta bisogni di cura diffusi nel sociale, capaci di ben illuminare, proprio alla luce di una cura più integrale, sia il patologico sia il normale (per usare ancora il dualismo tradizionale).
2. Allora al centro della “pedagogia clinica” sta e deve starci tanto il pedagogico quanto il clinico. Pedagogico ricondotto al suo nucleo più proprio: la formazione. Che è crescita, sviluppo dell’io come sé e in cui il sé (coscienza di sé, progetto di sé, crescita interiore dell’io) si fa guida dell’io stesso, suo modello: da costruire, potenziare, far valere. Clinico che è ricondotto alla cura di sé, ma cura di quel soggetto, con al centro la nozione di “caso”, di problema singolo legato a un/quel soggetto di cui ci si fa cura. Certo: il pedagogico sa bene i condizionamenti che il soggetto subisce. Sa che la sua educazione ha pesato e pesa nella sua “storia di vita” e nella sua stessa coscienza. E che, anche, così deve essere in una qualunque società organizzata. Ma sa bene anche che il soggetto è il focus ultimo (o primo) dell’agire formativo e del suo stesso pensarsi, come già ci indicò Socrate. E che è tale soggettività unica e potenziale che dobbiamo prendere-in-cura. Anche la clinica sa che non è solo pedagogica, che è diagnosi, terapia, farmacopea, organizzazione perfino. Ma in essa è sempre presente, come dato e come fine, un soggetto, quel soggetto, che va curato anche per via pedagogica, per via appunto formativa. Allora tra pedagogia e clinica viene a stabilirsi un rapporto e integrato e critico e dialettico, che necessita del presidio di una propria identità (epistemologica), di una propria rosa di pratiche (strategia), di una tipologia di azioni (tattica) da rendere sempre “mediale” tra pedagogia e clinica, alla luce di una cura che sta oltre la terapia psichica o medica, se pure ne trattiene molti elementi.
Una cura fatta di aiuto (al soggetto che soffre, che è in crisi, anche semplicemente che cresce o che declina, il quale reclama un atteggiamento di attenzione e un fascio di azioni capaci di dargli aiuto), di sostegno (che è esser-vicini e esser-pronti-a-dare-aiuto, in modo da rassicurare e da far maturare problemi e/o bisogni), di “nutrimento” (dell’io-sé, come atto di sviluppo e di impegno su di sé in chiave spirituale, di crescita interiore, tramite la cultura nelle sue varie forme: e la pedagogia clinica lo fa, nei carceri, negli ospedali etc).
Ma, si potrebbe dire, tale nozione di pedagogia clinica è pedagogia e basta. Spostata in sedi di sofferenza, di marginalità, di disagio. No. Non è così, perché è una pedagogia che si ripensa sulla clinica: che è terapia e studio-di-caso, il che implica una farmacopea personalizzata, a seconda dei contesti, dei momenti, dei disagi specifici. Pertanto la pedagogia clinica è un terreno interdisciplinare specifico. Collabora con le scienze medico-sanitarie e con quelle psicologico-psichiatriche e tra di esse fa emergere la funzione della pedagogia come cura-del-soggetto, e di una cura che va oltre quella medica e analitica, focalizzandosi sul “caso” e leggendolo come relativo a quel soggetto-individuo-persona da curare: attraverso sostegno e attraverso nutrimento, dando corpo a un aiuto-per-quella-persona e curandone, quindi, la specificità di cura.
3. Quale stile di pensiero dà corpo a questa “pedagogia clinica”? Forse più stili (psico-analitico, clinico, pedagogico) da integrare. Ma anche da gerarchizzare alla luce del focus più proprio (l’aiuto-al-“caso”), che è - ancora - quello formativo. Così, possiamo dire, c’è uno stile guida in questo pensiero ed è quello critico-ermeneutico che si focalizza sull’evento/sul caso/sul comprendere. Che valorizza il singolare, anche se usa il generale (lo spiegare, il normativo) per leggerlo nel sintomo e nella cura come farmacopea, ma che risale, deve risalire, al comprendere per agire sul caso e curare, in quella malattia, in quel disagio, quel soggetto specifico, quella persona che ho di fronte.
Uno stile proprio di una figura professionale specifica? Sì e no. Sì, nelle situazioni di specializzazione di cura (malati terminali, carcerati etc.). No, poiché la “pedagogia clinica” esplicita poi un atteggiamento che vale per ogni contesto di aiuto: dall’insegnante al genitore. Allora: si faccia pure un “albo” di pedagogisti clinici, ma li si dichiari come portatori, in un habitat specifico, di una competenza pedagogica, qui resa ad hoc proprio perché ha incorporato principi della clinica (terapia, “caso”, farmacopea etc.), ma li ha posti in essere dentro un tracciato pedagogico (ovvero formativo) che resta sempre, in questa pratica-teorica, il regolatore univoco e costante. E il principio-valore che quindi ispira l’agire pedagogico-clinico. Sempre. E presso il “patologico” e presso il “normale”, tanto per schematizzare un po’ rozzamente e impropriamente. Ma per capirci.

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L'arsenale delle bozze
Quaderni di “Riforma della scuola”
numero uno



“Riforma della scuola”
Rivista fondata da Lucio Lombardo Radice e Dina Bertoni Iovine
diretta da Franco Frabboni e Davide Ferrari

www.riformadellascuola.it
Edita grazie alla collaborazione, e come supplemento, de “Il progresso d'Italia”
Direttore responsabile Remigio Barbieri



Franco Cambi Emergenze educative e pedagogia critica
Le bozze dell'arsenale
Quaderni di “Riforma della scuola”
ISBN 978-1-4478-0533-5